L’avv. Stelio Zaganelli, figura di prestigio del foro perugino, ha vissuto a Città di Castello gli anni della giovinezza e dell’adolescenza. Fu nel Tifernate, quindi, che militò nelle schiere dell’Opera Nazionale Balilla: una militanza che il Regime rese di fatto obbligatoria, per plasmare in modo “totalitario” le nuove generazioni secondo i dettami dell’ideologia fascista.
Nell’immediato dopoguerra Zaganelli entrò nel partito socialista e, a Città di Castello, stabilì un significativo legame con Giulio Pierangeli, esponente riformista di elevata cultura e lungimiranza politica. E’ stato per breve tempo anche consigliere comunale e assessore. Poi la sua vita professionale e politica si è svolta a Perugia, città della quale è stato sindaco dal 1977 al 1980. Non si è mai affievolito, però, il suo profondo legame con Città di Castello.
Mostro a Zaganelli un volantino stampato dalla “Grifani-Donati”, con la rievocazione del “Balilla”, il giovane genovese che dette il via a una rivolta contro gli oppressori stranieri e che il fascismo eresse a simbolo. Lo stesso Zaganelli nel 1934 aveva letto in pubblico quella rievocazione: evidentemente fin dalla giovane età l’avvocato si distinse per carisma, preparazione letteraria e talento di oratore.
Dopo una rapida lettura mi dice:
“Mi riconosco ancora in alcune frasi che dissi in quella celebrazione del Balilla: ‘dobbiamo prepararci con abnegazione, disciplina, lealtà e coraggio’. In questo mi riconosco. Dall’ambiente combattentistico di mio padre ho mutuato l’attaccamento all’interesse della patria, al quale si deve subordinare ogni interesse particolare. Questo era viscerale: superare i propri limiti individuali per il senso della patria.”
Il padre di Stelio, Carlo, anch’egli affermato legale, fu un autorevole personaggio dell’ambiente combattentistico di Città di Castello dopo la prima guerra mondiale.
“Nella mia famiglia vi era l’orgoglio di essere stati combattenti. Mio padre aveva avuto tre medaglia al valor militare; mio zio, Armando Salcerini, era andato volontario nelle Argonne. C’era un legame garibaldino: nelle Argonne avevano combattuto i garibaldini; mio padre aveva fatto parte dei Cacciatori delle Alpi. A otto anni mio padre cominciò a farmi a rivedere tutti i campi di battaglia. Mi riportò per le trincee, i camminamenti, i luoghi delle battaglie della Grande Guerra.
A voi giovani il fascismo vi attrasse anche perché valorizzava i valori del combattentismo?
“Certamente. E allora il fascismo sembrava avere una spinta sociale. Non avvertivamo il fatto che avesse tutelato completamente gli interessi della borghesia. Sentivamo invece che era orientato verso una maggiore giustizia sociale. E questo lo percepivamo nell’Opera Balilla. Tutta la mia generazione lo ha sentito. L’abbiamo sentito fino al momento in cui abbiamo cominciato a renderci conto. Prima in maniera così, indistinta. Poi con la guerra..”
Voi giovani percepivate di essere soggetti a un sistematico indottrinamento?
“Indottrinamento non lo definirei. Semmai era sottile; in ogni caso dilettantesco. Stavamo insieme contenti, facevamo queste marce… C’era un senso, direi, quasi sportivo. Partecipavamo alle attività per il gusto di partecipare. Aveva una certa efficacia, senza dubbio, questo richiamo agli interessi supremi della patria”.
Che ricorda dei dirigenti dell’Opera Balilla?
“Il presidente dell’Opera Balilla era Gaetano Bani, che è stato mio insegnante fino alla terza media, prima di diventare preside. Gli sono rimasto sempre molto legato. Il suo era un insegnamento aderente alle materie che insegnava, mi sembra latino e italiano; ci faceva entrare anche il Duce, qualche volta, ma più che altro si richiamava all’attaccamento alla patria. Non era un fascista fanatico. Il suo vice, Umberto Vincenti, era diverso, aveva l’atteggiamento dello squadrista, ma in senso buono: per lui c’era il fascismo e il Duce, un innamorato. Ma si sentiva comunque un castellano, viveva il suo fascismo senza asprezze di fazione”.
Gabriotti era l’antifascista più noto, ed era amico di suo padre. Cosa ricorda di lui?
“A me saltavano agli occhi le sue medaglie al valore, il suo essere un eroe di guerra e un amico del padre. E mio padre non ci parlava mai delle idee politiche di Gabriotti. Allora non c’erano tanti discorsi tra i grandi e i piccoli, eravamo due entità generazionali diverse. Non posso quindi dire di aver mai percepito Gabriotti come un personaggio di spicco dell’antifascismo”.
La sua famiglia non si schierò subito apertamente con il fascismo.
“No. Mio padre Carlo si iscrisse al Fascio all’epoca della grande ondata di ammissioni del 1932. Ma in famiglia avevamo anche uno zio come Menotti Salcerini, vecchio anarchico, che ci canticchiava le canzonette antifasciste allora in voga: ‘Allarmi siam fascisti / terror dei comunisti / quando bandiera rossa si cantava / almen ‘na volta al giorno si mangiava / ed ora che si canta ‘Giovinezza’ / si crepa tutti dalla debolezza’”.
Nel 1937 lei iniziò gli studi universitari a Roma. Che ambiente trovò?
“Allora non si era in molti all’università. C’era il gruppo dei fanatici fascisti; poi il gruppo degli adepti non fanatici; un altro gruppo ancora, che gravitava nell’orbita cattolica, in cui cresceva l’ostilità al fascismo; quindi la massa degli apatici, degli indifferenti. Questi erano la grande maggioranza. Quanto a me, quand’ero a Roma, non ho mai partecipato all’attività del GUF, il gruppo universitario fascista”.
Erano, quelli, gli anni della guerra d’Etiopia e dell’impero. Si percepiva un grande consenso attorno al fascismo e al Duce.
“Quasi senza riserve, direi”.
Come giovani intellettuali, non vi rendevate conto dei rischi del totalitarismo fascista?
“L’avere una certa cultura aiutava a comprendere certi aspetti negativi del regime. Cominciava allora il rifiuto della liturgia fascista. Ne avvertivamo il ridicolo: il ridicolo delle parate, delle divise, dei funzionari dello Stato in camicia nera, del Duce fondatore dell’impero, di Starace – il segretario del partito fascista – che si buttava attraverso il cerchio di fuoco. Tutto ciò ci faceva sorridere; destava sempre più un senso di repulsione. Un senso di repulsione che però non si coagulava ancora in un antifascismo; a quell’epoca produceva una forma di afascismo che dilagava nella maggioranza dei giovani”.
E quando, alla fine degli anni Trenta, il regime introdusse le leggi razziali?
“Le trovai inaccettabili. Un atto di servilismo nei confronti della Germania. Ho avuto all’università degli insegnanti ebrei di valore. Ne sentivamo il livello culturale. Che significava non permettere loro di insegnare? Che significava la discriminazione degli ebrei? Una inutile bassezza. E poi il fanatismo della rivista ‘La difesa della Razza’! Suvvia… Comunque il razzismo fascista non era un fatto di massa. A Roma non si percepiva come fatto di massa la persecuzione degli ebrei”.
Quale fu la sua reazione allo scoppio della seconda guerra mondiale?
“Non feci tempo a concludere gli studi. Avevo vent’anni e un brevetto da pilota, così mi ritrovai in guerra, come tenente di aviazione nel V stormo squadriglie da caccia. Fremevamo per andare a combattere. Invece ci tennero fermi per sei mesi per far passare avanti i ‘moschettieri del Duce’, che dovevano andare a guadagnarsi le medaglie. Ci rimanemmo male. Sentivamo il bisogno di andare a combattere. Prescindevamo da considerazioni di carattere politico: siccome si entrava in guerra, si sentiva il dovere di combattere. Dove muoiono, io devo esserci: questo era il nostro modo di pensare”.
Però fu proprio quella guerra a rivelarvi gli inganni della dittatura fascista.
“Certamente. Ho aperto gli occhi in Africa, nel 1942. Ad El Alamein vidi che cos’era l’Italia in guerra: impreparazione, disorganizzazione, mancanza di mezzi. Capii che la guerra era un inutile sacrificio”.
Zaganelli porta inoltre una significativa testimonianza dello sbandamento delle forze armate italiane nell’estate del 1943, tra la prima caduta del fascismo, il 25 luglio, e l’armistizio, l’8 settembre.
“Facemmo l’ultima azione contro gli inglesi il 4 settembre. Perdemmo 6 aerei. Poi il 18 e il 24 settembre entrammo in azione contro i tedeschi, a Corfù, per proteggere la fuga dei reparti italiani. Sapevamo della drammatica situazione dei nostri a Cefalonia, ma era troppo distante, non avevamo abbastanza benzina. Così ci dirigemmo verso Corfù per aiutare le nostre truppe, di nostra iniziativa, non d’intesa con gli alleati”.
Lei tornò a Città di Castello dopo la guerra: come la ritrovò?
“Cambiata. Era cambiato il tessuto umano e sociale. Una città… più sbracata. Un degrado dell’ambiente sociale, certamente determinato dalla guerra. In precedenza, per quanto giovane, avevo percepito il valore delle tradizioni culturali di Città di Castello: il ruolo svolto dall’ambiente tipografico, da intellettuali come Magherini Graziani, don Enrico Giovagnoli. Una città tutt’altro che arretrata”.
P.S. Stelio Zaganelli è deceduto nel gennaio 2011 a 91 anni di età.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini e pubblicata ne “L’altrapagina”, settembre 2004.
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