La ripresa del potere da parte dei fascisti costrinse i democratici a muoversi con estrema cautela. Ma alcuni brani del diario di Gabriotti rivelano che la loro mobilitazione continuava in clandestinità. Come si è detto, la trama cospirativa che vedeva Gabriotti protagonista si estendeva a Sansepolcro e alla Valtiberina toscana, proiettandosi fino ad Arezzo. Però, negli ultimi giorni di settembre, era soprattutto nel territorio di Città di Castello che Gabriotti toccava con mano lo straordinario fenomeno della renitenza giovanile (“le campagne sono piene di fuggiaschi”, “continuano anzi ad andare alla campagna moltissimi”) e ne intuiva le potenzialità per combattere il nazi-fascismo. Scrisse il 26 settembre: “Torno ora dalle ‘Capanne’ ove sono stato a trovare un gruppo di giovani lassù rifugiati per non rispondere al bando. Che commozione al vedere tanta volontà e tanta energia pronta per la difesa della Patria! Sembrava che il fascismo, con la propaganda di un tronfio patriottismo basato sulla deificazione di un uomo, avesse atrofizzato la volontà dei giovani, invece questo periodo di prova dura ha sviluppato in essi il senso di responsabilità ed il più forte amore alla Patria, che vogliono libera dalla oppressione tedesca”. Il giorno dopo, interrogandosi sull’estremo e urgente bisogno di allacciare stretti rapporti tra quanti erano alla macchia e i patrioti rimasti nei centri urbani, Gabriotti confessava i propri limiti: “Occorre però una mente direttiva capace ed io non mi sento tale. Eppure dovrò adoperarmi almeno per trovare organi dirigenti superiori. Io desidero fare il gregario. Occorre d’altra parte pensare a procurare armi e vettovaglie”. In realtà il colonnello ed eroe della Grande Guerra Gabriotti sapeva di poter molto contribuire alla lotta: “Io intanto sto preparandomi la divisa militare, perché non intendo restare a casa quando sarà il momento di dare addosso ai tedeschi”. E si rendeva conto che ancora bisognava contare solo sulle proprie forze, perché mancava una autorevole dirigenza a livello provinciale. Il 28 settembre si recò a Perugia per allacciare contatti, ma trovò “un disorientamento straordinario”.
In effetti le autorità fasciste misero in atto efficaci misure per contrastare il nascente movimento di resistenza. Nella notte dal 17 al 18 ottobre una retata della polizia portò all’arresto di numerosi oppositori perugini, tra i quali l’avv. Carlo Vischia, nel cui studio Gabriotti aveva convocato proprio per il pomeriggio del 17 la commissione democristiana di studi politici. Gli esponenti del Partito d’Azione sfuggirono alla cattura e poterono continuare l’organizzazione clandestina. Proprio uno di essi, il pretore Alberto Apponi, il 25 ottobre giunse a Città di Castello per incontrare Gabriotti e affidargli l’organizzazione della rete antifascista nell’Alta Valle del Tevere. L’esponente tifernate (che quel giorno scriveva nel diario di aver avuto “notizie su possibili formazioni irregolari”), assicurò Apponi che nella valle già si stavano formando le prime bande.
A novembre la situazione si fece pericolosa. Da Perugia si impose una stretta sugli oppositori tifernati. Il 4 novembre fu emesso un ordine di cattura contro Gabriotti, Pellico Biagioni, di idee repubblicane, e Angelo De Pinto, insegnante nel locale liceo. Una soffiata uscita dalla caserma dei carabinieri permise a Gabriotti di sfuggire all’arresto. Biagioni fu presto aiutato da amici fascisti a uscire dall’inchiesta. De Pinto invece sarebbe rimasto in carcere a Perugia per due mesi.
Gabriotti si nascose a casa della sorella, a pochi metri dal comando del presidio della Milizia. La sua latitanza fu relativa, anche perché i fascisti locali non si accanirono contro di lui. Gli giovò avere come grande amico personale proprio l’autorevole capozona del partito, Fernando Ricci. Il coraggio di Gabriotti sfociava spesso nella temerarietà. Sapeva di correre seri rischi: “Sono considerato elemento direttivo, non solo locale, ma provinciale e più su (?!), pericoloso, quindi da eliminare”. Tuttavia confessò a se stesso di provare piacere a correrli: “Mi sembra di essere tornato ai periodi della guerra, quando sentivo quasi la necessità di andare avanti agli altri”. Così continuò a tessere nascostamente la sua trama.
La sera del 30 novembre si recò a casa del parroco don Giuseppe Pierangeli, dove incontrò Leopoldo Pieragnoli, di Prato. Lo conosceva come uno dei capi del movimento democratico-cristiano. Uscì da quella riunione entusiasta, e ancor più convinto delle sue idee politiche progressiste: “Ci siamo intesi su tutti i punti programmatici, che debbono essere molto spinti, se si vuol evitare una supremazia comunista”. Pochi giorni dopo riuscì ad avere addirittura un abboccamento con Bonuccio Bonucci, promotore di quella che sarebbe diventata la Brigata “San Faustino”: “Mi ha informato del lavoro di Perugia e della zona. Si va sviluppando l’attività per la formazione delle bande. Si sono seguiti criteri che avevo anche io enunciati. Aggruppamenti. Unione di questi e altre formazioni, in modo che i gregari sono alla conoscenza solo del proprio comandante per arrivare al vertice dei comandi. La rete è estesa e vi sono anche armi a disposizione. Si raccolgono mezzi e si spera di essere in piena efficienza per il momento opportuno”. Gabriotti ribadì a Bonucci di essere a sua disposizione.
Gabriotti rimase latitante fino al 14 dicembre, quando – anche per i buoni uffici di Fernando Ricci – la sua pratica fu archiviata con la diffida a non occuparsi di politica e “di tenere per sé” le sue idee. Il coraggio e la spregiudicatezza di Gabriotti rischierebbero di dare un’immagine edulcorata della situazione, se non si ricordasse un altro fatto successo proprio allora. Il 6 dicembre Luigi Cavallucci, giovane operaio tra i primi a disertare dalla Guardia Nazionale Repubblicana, fu ricercato e ucciso da altri militi nella sua abitazione nel centro di Città di Castello. Annotò Gabriotti nel diario: “Cose da rabbrividire… La cosa ha destato profonda impressione e grande indignazione nella popolazione”.
Gabriotti e i più fidi collaboratori non si lasciarono intimidire. Stava avanzando l’inverno e bisognava far giungere aiuti indispensabili agli uomini alla macchia. Il giorno di Natale Gabriotti scrisse: “La posizione di quelli nei monti è sempre più difficile. Hanno bisogno di tutto. Denaro, vestiario, viveri… Come fare? Occorrono centinaia di migliaia di lire”. Non si lasciò prendere dallo scoramento: donò lui per primo mille lire.
Le pagine del suo diario rivelano che i cospiratori tifernati continuarono ad agire nascostamente anche nelle settimane successive. Vi si legge alle date del 9, 14 e 18 febbraio: “Stanotte si farà un’azione”; “Iersera la radio ha dato una comunicazione indicativa”; “Prese tutte le disposizioni assieme agli altri amici per comunicare le notizie ricevute”.
Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.