Grappoli d’uva destinati alla produzione del vinsanto (Centro delle Tradizione Popolari).
La tavola dopo un pranzo (foto Enrico Hartmann, fine '800).

Un buon bicchiere di vinsanto

La tradizione del vinsanto deve essere calata nel peculiare contesto di un’agricoltura a conduzione mezzadrile. Alla vendemmia, proprietario e mezzadro si dividevano l’uva raccolta: fino ai primi del ‘900, generalmente andavano al “padrone” i tre quinti; poi la si spartì a metà. Non tutto il prodotto serviva per fare vino: una certa quantità di uva, delle varietà più adatte, veniva infatti sottoposta ad appassimento in locali salubri ed arieggiati, di solito appendendo i grappoli al soffitto. Il vino passito da essi prodotto, collocato in botticelle, era poi sottoposto ad invecchiamento.

Per quanto si trattasse di una produzione in genere limitata al consumo famigliare, era effettuata con estrema cura, proprio perché dalla buona qualità del vinsanto offerto agli ospiti poteva dipendere il prestigio del contadino e del proprietario. I mezzadri, per quanto poveri, avevano fama di persone ospitali e dignitose: soprattutto nei momenti di più intensa socializzazione, come la battitura, il carnevale e altre festività, tenevano a fare bella figura con chi avevano in casa e il vinsanto poteva assurgere a status symbol. Il proprietario benestante naturalmente ne poteva produrre e consumare in quantità assai maggiore, ma il suo vinsanto, alla fine del pasto od offerto agli ospiti, assumeva lo stesso significato.

Dai Diari di Enrico Hartmann – esperto litografo di origine svizzera e piccolo possidente di Città di Castello – si può desumere il ruolo dal vinsanto in tipici menu dell’epoca. Ad esempio, l’11 aprile 1905, il menu di una cena di compleanno fu il seguente: “salato, pasta fatta in casa, fritto misto, maionese, arrosto misto con asparagi, crema e biscotti, frutta e formaggi, caffè, vinsanto, liquore”. Al pranzo di capodanno dell’anno successivo gli Hartmann consumarono “cappelletti Buitoni, fritto misto, zampone con purè, cappone arrosto, dessert, vino bianco, rosso e vinsanto, caffè e liquore”.

Lo stesso Hartmann produceva vinsanto, con l’aiuto del suo colono. Scrisse nel Diario il 5 dicembre 1911: “Mattio è venuto a fare il vinsanto”. E naturalmente l’offriva agli ospiti: “…volevo invitare il maestro e la banda di Sansecondo a venire a bere un bicchiere di vinsanto…” (16 maggio 1912).

Alla notevole diffusione del vinsanto contribuiva la marcata parcellizzazione della proprietà terriera nell’Alta Valle del Tevere. Nel 1878 si calcolava che nella sola Città di Castello fossero 2.240 i possidenti in terreni, numero che cumulava i pochi grandi proprietari e il vasto stuolo di piccoli possidenti e di coltivatori diretti. V’è da ritenere che nella grande maggioranza delle loro case, come in quelle più modeste dei coloni, vi fossero appesi grappoli d’uva da appassire e, in cantina, botticelle di vinsanto in fase di invecchiamento, insieme a qualche bottiglia già pronta per il consumo.

Un buon vinsanto veniva tradizionalmente servito anche nei pranzi di gala e poteva accrescere il prestigio dei locali pubblici. L’antico Albergo Ristorante La  Cannoniera di Città di Castello, come mostra un suo conto, lo servì a un pranzo del Circolo Tifernate, che raccoglieva l’élite culturale e professionale della città.