La testimonianza del tifernate Plinio Ugolini (1912-1993) apre un interessante squarcio sull’ambiente tipografico locale e sulle sue relazioni con il regime fascista.
La tipografia “Unione Arti Grafiche” in epoca fascista
Ho cominciato a lavorare all’Arti Grafiche nel 1927. C’erano 70 operai. Lo stato dell’azienda non era troppo buono, aveva il difetto delle cooperative: gente non troppo preparata, chi comandava non era all’altezza dal punto di vista professionale. La gestione era un po’ casereccia. Circa la metà del personale era costituito da donne che lavoravano a cottimo e che avevano la responsabilità dei lavori più semplici. Anche se il lavoro poi veniva fuori, il modo di organizzare il lavoro non andava bene. Allo stesso tempo c’era un certo astio, un sordo rancore che divideva il personale. Non c’era quella coscienza unitaria che sarebbe necessaria per mandare avanti una cooperativa. Tutti volevano fare i caporali, il lavoro non era suddiviso con efficienza e competenza.
Il Direttore era Mancini, un brav’uomo che molto si dedicava al lavoro, ma che mancava di competenza. L’avv. Giulio Pierangeli era socio dell’Arti Grafiche e sindaco revisore, carica che ricopriva senza ricompensa.
Lavoro sicuro, salari bassi
Non vi furono crisi economiche durante il fascismo; di lavoro ce n’era anche troppo, la piazza di Castello era ben conosciuta in campo tipografico, ma i preventivi che facevano le nostre ditte per accaparrarsi i lavori e vincere la concorrenza delle aziende delle grandi città erano troppo bassi, tali da impedire adeguati profitti e giuste retribuzioni agli operai. Era sempre un problema farla para.
Durante il fascismo eravamo invidiati a Castello. Prendevamo una paga di molto superiore a quella di altri operai; il sistema del cottimo o straordinari ci permetteva di arrotondare a piacimento i guadagni in caso di bisogno. E poi il lavoro era sicuro e continuativo. Nel 1932 avevamo 102 operai.
Protagonismo dei tipografi nella vita sociale
Da un punto di vista culturale i tipografi organizzavano tutto ciò che avveniva a Castello. Oltre alla Società Carnevalesca, che era la più forte, avevamo le Ottobrate, gite che ci portavano in località per quel tempo non certo vicine. Molti di noi poi partecipavano all’attività della Filodrammatica: io, Zucchetti, Mariani, come organizzatore. Insomma i tipografi erano i trascinatori della vita tifernate.
I tipografi e il fascismo
L’ambiente tipografico è stato fino al 1930-1931 prettamente antifascista. Dopo il famoso discorso di Mussolini a Bologna rivolto ai tipografi (“Considero i tipografi come facenti parte dell’aristocrazia del lavoro; in trent’anni di giornalismo ho considerati i tipografi non come compagni ma come fratelli”) molti tipografi, anche vecchi antifascisti, si spostarono verso il fascismo, non senza fanatismo. A rappresentare il vecchio antifascismo tra i tipografi, anche se costretto ormai all’inazione politica e alla vita privata, rimase solo la figura irreprensibile di Aspromonte Bucchi.
Il sindacato fascista
Il sindacato fascista era un trait d’union tra operai e padronato, era per la cooperazione fra le classi, era un mezzo sindacato. In teoria funzionava, in pratica no. Mancava di combattività e spirito rivendicativo ma poteva servire quando c’era qualche inadempienza contrattuale. Se puntavamo i piedi e denunciavamo queste inadempienze si poteva avere soddisfazione.
Ambiente di lavoro e saturnismo
L’ambiente di lavoro era insano in tutte le aziende tranne che alla Lapi. Locali vecchi, pavimenti instabili, quasi nullo il riscaldamento, talvolta realizzato con una misera stufa in mezzo al locale che faceva più male che bene.
Ma il problema più serio era quello del saturnismo, la malattia professionale dei tipografi che si acquisiva per una troppo lunga esposizione al piombo. Ne erano colpite soprattutto le donne compositrici che, oltre a lavorare a cottimo per gran parte della loro attività, erano costrette anche a lavorare parecchie ore al giorno. Anche i fonditori di piombo erano molto colpiti. L’incidenza di questa malattia era abbastanza frequente (10% circa dei lavoratori). I controlli erano scarsi e rari. Cure a Milano e talvolta pensione di invalidità. Si salvava sicuramente solo chi smetteva di lavorare per tempo.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 5 ottobre 1984.Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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