Giornale del Gruppo di Combattimento “Cremona”.
Alfonsine dopo la battaglia per la sua liberazione.
Pianta della battaglia di Alfonsine.

Testimonianze di coraggio e paura

Per quanto breve, la guerra combattuta dai soldati del “Cremona” in Romagna è stata dura, rischiosa, emotivamente stressante. Ne fanno fede le testimonianze di alcuni volontari altotiberini.

In occasione del suo 90° compleanno, il 22 luglio 2015, Bruno Crispoltoni ha voluto lasciare ai nipoti una traccia scritta di quella sua avventura. Ecco alcuni brani del suo Diario per ricordare, tratti integralmente dal manoscritto.

Dalla ultima postazione si iniziava la pattuglia sul fronte sinistro neutro molto pericoloso. La pattuglia era composta da quattro militari e un caporal maggiore reduce dal fronte russo che si chiamava Boschi, era di Montevarchi Arezzo, era un coraggioso non aveva paura di niente. Quando si andava di pattuglia uno dei quattro militari aveva un filo di collegamento che comunicava noi della pattuglia alla postazione di comando. Prima di partire si sparava tanti colpi di mortaio dalle ultime postazioni, questo per essere più tranquilli nel nostro difficile compito.

Io ero quasi sempre insieme a questo caporal maggiore […]. Su questo fronte neutro c’erano delle postazioni costruite dai tedeschi che poi si erano ritirati. Questo caporal maggiore insieme a noi, aveva il coraggio di entrare dentro, che paura, a volte piangevo: e lui mi diceva sempre, ‘Ragazzo non avere paura che ancora non è nulla’.

Passarono tante notti di terrore e di paura, io spesso chiamavo la mamma, sembrava che mi sentisse, perché lei era sempre a pregare. […]

Di giorno il fronte era calmo, ma bisognava stare attenti perché i tedeschi si mettevano sui posti che non si vedevano, avevano dei fucili con il binocolo che si chiamavano ‘cecchini’ in termine tedeschi. Una volta una pallottola mi sfiorò l’elmetto, quanta paura, eravamo sempre in pericolo. […]

La nostra paga era di L. sessanta al giorno, a quel epoca era una discreta somma, io in parte li mandavo alla mia famiglia. […]

Il 10 aprile 1945 alle ore 4.45 del mattino iniziò la battaglia, un fino mondo, sembrava la fine del mondo, razzi illuminanti si vedeva come di giorno, mitragliatrice, mortai, bombe a mano, quanta paura e qualche pianto invocando sempre la mamma fra una pallottola e l’altra.

Dopo tappe, e dopo tappe passando il fiume Senio, il fiume Canalina, il Santerno liberammo Alfonzina, poi altri paesi, come Goro, Godigoro, Mezzogoro, Rosignano, Cantarina, Loreo, Porto Tolle, da quei paesi arrivammo a Sottomarina di Chioggia”.

Un altro volontario di Sansepolcro, Emilio Mattei, ha lasciato una copia del suo racconto (La mia avventura), al Museo e Biblioteca della Resistenza della città toscana. Quelli che seguono sono gli stralci più significativi.

Dopo appena dieci giorni ci spedirono al fronte. Ci fecero scendere dai camion e in fila indiana arrivammo a 500 metri circa dal Senio: un fiume che, pur non avendo una grande portata d’acqua, ha due argini altissimi.

L’argine nord era occupato dai tedeschi, quello a sud dalle forze alleate, dalle nostre divisioni Cremona e Friuli e dalla divisione garibaldina agli ordini del capo partigiano Boldrini. […]

Ci misero in riga e dopo pochi minuti arrivò il comandante. Il quale ci dette subito una pessima impressione: metteva paura soltanto a guardarlo, questo si chiamava Giubilisco [Silvestro di Simone]. Esordì con queste parole: ‘Voi siete venuti volontari; ebbene sappiate che oggi siamo vivi e domani potremmo essere morti. Io nella mia compagnia di «merde» non le voglio. Oltre l’argine ci sono i tedeschi: se andate là vi ammazzano loro, se indietreggiate vi ammazzo io!’

Ci guardammo in viso, specie noi di Sansepolcro, e dissi a Sergio Tofanelli, che si trovava vicino a me: ‘Siamo capitati proprio bene!’. […]

La vita al fronte era terribile, specialmente la notte. Bisognava tenere gli occhi bene aperti perché di notte le pattuglie tedesche, strisciando per terra, venivano vicino alle nostre postazioni, per poter segnalare al loro comando il punto esatto dove eravamo. Così il giorno dopo ci potevano colpire con i mortai. […]

Il giorno di Pasqua del 1945 per la mia compagnia fu un giorno terribile. […] Verso le 10.30 i tedeschi iniziarono a martellare le nostre postazioni con cannonate di grosso calibro. Sembrava un finimondo, non si capiva più niente. Pensammo subito che i tedeschi stessero per iniziare l’avanzata e che per noi fosse la fine. Verso le 13 la postazione dove tra gli altri c’era il Tofanelli fu colpita in pieno. Quelli urlavano perché erano rimasti sotto quei sacchi di sabbia con rischio di soffocare. Ma non potevamo muoverci per soccorrerli. I camminamenti erano quasi tutti devastati, le schegge piovevano da ogni parte. Noi, con i nostri elmetti, stavamo rannicchiati giù per terra. Questo inferno durò fino alle 16.30. […]

[Alba del 10 aprile 1945]

Al sorgere del sole, senza nessuna resistenza da parte del nemico, raggiungemmo il primo argine del Senio. Ma restava il più: attraversare il fiume e conquistare l’altro argine, dove erano arroccati i tedeschi.

Dopo qualche minuto il comandante del reggimento, facendo alzare la bandiera, gridò: ‘Avanti Cremona!’ Con un urlo unanime e senza pensare a niente ci buttammo giù nel fiume. L’acqua era bassa. Ma dalle feritoie tedesche uscivano le raffiche dei mitragliatori, e non pochi dei nostri rimasero colpiti al suolo. Raggiungemmo l’argine opposto dove, secondo l’ordine che ci era stato dato, ci fermammo alquanto per riprendere fiato e sganciare le nostre bombe a mano verso le postazioni nemiche. Poi il comandante gridò di nuovo: ‘Avanti Cremona!’

Lì mi resi conto cosa sia la guerra! Che spettacolo orribile quei lanciafiamme i quali come lingue di fuoco entravano dentro le postazioni dei tedeschi che invano cercavano di mettersi in salvo! Lì ebbi la mala sorte di vedere tante cose terrificanti che rimarranno per sempre impresse dentro di me!”

Anche il tifernate Dante Fontanelli ha lasciato una vivida testimonianza della durezza di quella guerra.

Il fatto è che combattere i tedeschi metteva paura. È stata una guerra sfibrante. Sparavamo la notte; i combattimenti avvenivano quasi sempre di notte e di notte si usciva di pattuglia. Insomma, quando veniva il buio cominciava il casino. Bisognava stare attenti. C’erano tra noi dei ragazzi inesperti, di 18 anni, qualche volta s’addormentavano col mitra tra le mani. In 32 giorni di prima linea sono riuscito a dormire di fila solo due ore. Di giorno ci si riposava, ma con brevi sonnellini; non era un vero e proprio sonno. In prima linea era così. Si dormiva davvero solo quando ci davano il cambio e ci trasferivano nelle retrovie.

Ho visto gente paralizzata dalla paura. Si era appostati in una fattoria. Si sparava utilizzando come feritoie delle finestrine nella scuderia al pianterreno. Una sera con me in quella postazione c’era un ex bersagliere. M’ero raccomandato che stesse attento, perché i tedeschi potevano avvicinarsi strisciando lungo i filari di viti. Gli ho detto: ‘Io guardo a destra, tu guarda alla nostra sinistra’. Dopo un po’ ho scorto un’ombra che si avvicinava, lungo i filari. Ho detto al mio compagno: ‘Attento, che stanno venendo!’; e mi sono messo a sparare contro quel tedesco. Poi mi sono girato verso il compagno per chiedergli cosa aveva visto dalla sua parte. Mi sono accorto che si era rannicchiato sotto un lungo tavolone di legno. Si era cacciato lì sotto, tremava dalla paura e pregava. E pensare che quel ragazzo non era al suo primo combattimento”.

Giuseppe Casini, di Sansepolcro, ha lasciato una memoria scritta della sua esperienza nel “Cremona (Ricordi di guerra). Alcuni stralci descrivono la battaglia del Senio: “Alle ore 18 del giorno 9 aprile eravamo nella zona di Alfonsine. Fummo portati con degli autocarri su un terreno piatto e senza ripari, che si trovava a 50 metri dall’argine del Senio. Dovevamo stare sdraiati per terra in attesa dell’ora X che nessuno conosceva, nemmeno gli ufficiali. Improvvisamente sentimmo che la nostra artiglieria pesante iniziava il bombardamento delle linee nemiche. […] Al di là del Senio i razzi luminosi, appesi a piccoli paracadute, scendevano lentamente illuminando a giorno le postazioni tedesche. Com’è comprensibile, avevo paura, però mi feci coraggio e raccomandai la mia anima a Dio chiedendo perdono dei miei peccati. […] Erano le ore 5 e 10 minuti quando arrivò l’ordine dell’attacco. Entrammo in acqua; attraverso la divisa pesante di lana, non avvertimmo il freddo. Attraversammo il fiume e ci attestammo sull’argine opposto. […] Dei nostri soldati si muovevano con una specie di grosso tubo arrotolato sulle spalle, era un ‘lanciafiamme’. Lanciava a 60 metri di distanza degli schizzi di fuoco ad una temperatura di 5.000 gradi centigradi […]. Quando caddero i primi schizzi di fuoco vicino ai bunker i tedeschi uscirono subito fuori dalle loro postazioni con le mani alzate e bandiere bianche, arrendendosi, non volevano morire arrosto”.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.