Reportage della rivista “Signal” sulla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso d’Italia.

Tascini Ferdinando. Di sentinella a un illustre prigioniero: Benito Mussolini

Ferdinando Tascini, originario del territorio di Todi, figlio di un mezzadro, si è trasferito a Città di Castello dal 1953, dove ha esercitato in un primo momento l’attività di fattore, per poi dedicarsi con successo all’imprenditoria agricola.
Tascini inizia la sua ricostruzione dei fatti dal 1942, quando andò in guerra in Montenegro.

 

Cosa le è pesato di più in quel periodo passato al fronte?
“La fame. Tanta. Anche tra noi soldati. C’era un trattamento diverso tra le camicie nere e noi dell’esercito: loro mangiavano quanto volevano, noi poco. Questa discriminazione mi pesava. Fortuna che ero amico di una camicia nera, e mi dava un po’ della sua razione”.
Non si era sentito mandato allo sbaraglio?L’Italia non era militarmente preparata alla guerra.
“Fino a un certo punto. Ora che posso vedere la documentazione che trasmettono su quel periodo storico, mi rendo conto di come noi soldati non si sapesse proprio niente di quanto accadeva in Africa, in Russia… Eravamo completamente al buio. Facevamo parte del 120° reggimento di fanteria, composto da reduci dell’Africa. Eravamo di presidio alle coste, per fortuna non molto esposti alla guerriglia interna con i partigiani”.
Cosa le è pesato di più in quel periodo passato al fronte?
“La fame. Tanta. Anche tra noi soldati. C’era un trattamento diverso tra le camicie nere e noi dell’esercito: loro mangiavano quanto volevano, noi poco. Questa discriminazione mi pesava. Fortuna che ero amico di una camicia nera, e mi dava un po’ della sua razione”.
Non si era sentito mandato allo sbaraglio?L’Italia non era militarmente preparata alla guerra.
“Fino a un certo punto. Ora che posso vedere la documentazione che trasmettono su quel periodo storico, mi rendo conto di come noi soldati non si sapesse proprio niente di quanto accadeva in Africa, in Russia… Eravamo completamente al buio”.
Come aveva vissuto il fascismo prima della guerra?
“Durante il fascismo, mio padre era contrario al regime. Lui, mezzadro, era dalla parte dei contadini e non dei padroni. Ma di politica non si parlava molto. Anche perché il fascismo non ci pesava tanto. Direi che in famiglia non sentivamo né trasporto verso il regime, né aperta ostilità”.
E tra i giovani?
“Tra i giovani invece percepivamo l’entusiasmo intorno al regime fascista. Siamo cresciuti in quel clima lì. Ho fatto tutta la trafila nell’Opera Balilla. Ci si andava volentieri, c’era molta partecipazione, entusiasmo direi. Ricordo l’entusiasmo nell’ascoltare le parole roboanti del Duce, quando si andava ad ascoltare i suoi discorsi qua e là, dove c’erano le radio. Il dirigente dell’Opera Balilla di Todi era un direttore scolastico, un fascista tutto d’un pezzo, non fanatico ma severo. Ci sapeva fare. Partecipare era un dovere, ma non ci pesava”.

Tascini si trovava al Gran Sasso quando, dopo il pronunciamento del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio1943 e l’arresto di Mussolini, il Duce vi fu portato per trattenerlo in stato d’arresto in un luogo segreto e ritenuto sicuro. 
Parliamo del settembre 1943. Come mai si trovava a Roma?
“In Montenegro, venni a sapere che c’era la possibilità di tornare in Italia. Feci il corso allievi carabinieri a Roma, poi fui inviato alla legione del Lazio. Una sera il colonnello ci disse che gli servivano 30 uomini per un servizio speciale. Chi vi voleva andare doveva alzare la mano. Non spiegò altro. Siccome nessuno alzava la mano, prese una lista già predisposta e scelse lui. C’ero anch’io tra quei nomi. Partimmo la notte stessa. Nessuno sapeva dove eravamo diretti. Arrivammo alla stazione della funivia di Campo Imperatore, al Gran Sasso, dove c’era una villetta.
La mattina presto del 28 agosto 1943, trapelò la voce che stava per arrivare una autorità alla quale si doveva montare la guardia. Passò nemmeno un’ora, arrivò una macchina scura e scesero alcune persone: tra queste Mussolini. Lo riconobbi subito, era a una decina di metri. Tutto vestito di nero, con un cappotto nero. L’accompagnavano tre persone”.
Che impressione le fece Mussolini?
“Mi parve un uomo abbattuto, dimesso, distrutto; moralmente finito, lo si vedeva a colpo d’occhio. Non era più lui”.
Dopo l’arrivo di Mussolini, che ordini vi dettero?
“Ci radunarono subito, dicendoci che Mussolini sarebbe stato ospite in quella villetta e noi si doveva montargli la guardia; avesse tentato di fuggire, bisognava sparare. Questo era l’ordine”.
Lo potevate frequentare?
“No. Lo vedevamo solo quando faceva le sue passeggiate nel poco spazio attorno alla villetta. Lui poteva passeggiare solo lì attorno, con noi che montavamo la guardia armati. In queste piccole passeggiate facevano compagnia a Mussolini il maresciallo dei carabinieri, l’ispettore di polizia e il suo attendente. Ora l’uno, ora l’altro”.
Era, dunque, un Mussolini turbato…
“Sì. In quei sette giorni che rimase nella villetta ebbi sempre la sensazione che Mussolini si sentisse un uomo finito. Non sapevamo che fine avrebbe fatto e non ci si poteva immaginare che i tedeschi lo avrebbero liberato”.
Che effetto le fece vedere Mussolini in quelle condizioni?
“Mah, avevo persino dimenticato il periodo degli entusiasmi fascisti di prima della guerra. Il fascismo non lo vedevo più di buon occhio, assolutamente. Anzi, durante la guerra avevo maturato un po’ d’avversione. Mi resi conto che era una dittatura, e quindi ero diventato contrario. Forse questa avversione contro le dittature me l’aveva trasmessa mio padre”.
Provava ancora un po’ di simpatia per Mussolini?
“Beh, si agitavano in me sentimenti contrastanti. Ci avevano insegnato che lui era di origine popolare, voleva bene al popolo e faceva le leggi per il suo bene, e che era stato tradito dai ‘signori’. Questo ancora mi rimaneva dentro. Pensavo anch’io che, dopo tutto, lo avessero tradito i ‘signori’. Però già gli imputavo la colpa di aver voluto la guerra e di essersi alleato ai tedeschi. Avevo veramente maturato la convinzione che era una guerra sbagliata. E non avevo digerito l’alleanza con i tedeschi: non mi piaceva il modo come si comportavano”.
Torniamo a quei giorni sul Gran Sasso…
“Ad un certo punto decisero di portarlo su, all’albergo situato a circa 2.200 metri di altitudine. Mentre sotto facevo la guardia, lassù mi misero al centralino. Eravamo 30 carabinieri e una quarantina di poliziotti della pubblica sicurezza. Il nostro comandante era un tenente, che chiamavamo Taddei; l’ispettore dei 40 poliziotti lo chiamavamo Ippolito. Nella nuova sede, lo spazio era molto, con delle radure disseminate di rocce che affioravano qua e là. Mussolini poteva allontanarsi di più per le sue passeggiate, sebbene sempre sotto la vigilanza degli stessi accompagnatori. Era sempre vestito di nero, col cappello. Al centralino, tra l’altro, ricevevamo il comunicato in lingua tedesca e italiana, il bollettino di guerra, che poi il nostro comandante portava a Mussolini tutti i giorni. Quindi Mussolini era tenuto informato  dai bollettini radiofonici. che gli passavamo noi”.
Lei era lì, l’8 settembre, quando vi giunse la notizia dell’armistizio?
“Sì, lo sapemmo via radio Vi fu subito un’esplosione di gioia. Ma, non si sa perché, si raffreddò subito, come d’incanto, come se avessimo percepito che la guerra non era finita. Forse ci condizionarono le persone che ci stavano vicino, le quali si rendevano conto che la guerra non era affatto finita. Fatto sta che quella gioia si sgonfiò subito, durò pochi momenti”.
Non vi accorgeste di niente di strano in quei giorni?
“Avevo notato che passavano sopra di noi dei ricognitori. Mi ricordo di un aereo che sorvolava l’albergo e girava. Evidentemente faceva delle fotografie; tanto è vero che dopo la liberazione di Mussolini trovai in terra la fotografia aerea della zona dove ci trovavamo. Forse era caduta ai tedeschi. Venne un loro ufficiale e me la strappò dalle mani. Ma quando passarono quei ricognitori noi non si poteva immaginare cosa stava per succedere”.
Quindi non vi sentivate in pericolo…
“No. Non percepivamo come pericoloso fare la guardia al Duce. Solo dopo la sua liberazione si ebbe la percezione del rischio che avevamo corso. Infatti, il 12 settembre, dopo pranzo, non ero di servizio e mi riposavo tranquillamente nella mia cameretta. Ad un certo punto dei rumori forti, insoliti. Poi sentimmo gridare: ‘Sono atterrati i tedeschi’. Mi affacciai alla finestra verso il grande spiazzo adiacente l’albergo e vidi 4 o 5 alianti per terra, con le SS che impugnavano le mitragliatrici semipesanti e ci circondavano”.
Quanti saranno stati i tedeschi?
“In tutto erano 11 alianti, con almeno 6 o 7 tedeschi ciascuno. Noi eravamo stati avvertiti che in caso di attacco dovevamo prendere la posizione e aspettare gli ordini. Mentre i tedeschi circondavano l’albergo, noi restammo appunto in attesa di ordini, armati. Intanto io mi affacciai dall’altra finestra della mia camera, a est, e vidi che era atterrato un altro aliante proprio vicino all’ingresso. Non so come abbia fatto, era proprio vicino. Da questo aliante è uscito un ufficiale italiano con le mani alzate e si è diretto verso l’albergo. Era il generale Soleti, capo della polizia, preso in ostaggio dai tedeschi, che erano già a Roma. Guidato da dietro da un ufficiale tedesco, Soleti raggiunse l’albergo, a mani alzate. Gli andò incontro il nostro commissario Ippolito. Dopo il colloquio tra di loro, ci vennero a dire che dovevamo arrenderci. In ogni caso, per come eravamo armati, non saremmo stati in grado di resistere all’attacco dei tedeschi. Ci avrebbero sopraffatti”.
Tutto sommato vi è andata bene.
“Eh sì. A quel punto i tedeschi, si sono resi conto che non c’era resistenza, hanno capito che l’impresa era riuscita: armi in pugno, hanno stretto il cerchio, sono entrati e hanno preso possesso del centralino. Fu in quel momento che Mussolini si affacciò alla finestra. Tutti i tedeschi inneggiarono a lui: ‘Duce! Duce!’. Lo vidi sorridere, fu la sola volta che lo vidi sorridere in quei giorni. Lui non uscì, andò da lui una delegazione con gli ufficiali italiani e il comandante tedesco”.
E poi?
“Nel frattempo gli apparecchi che avevano trasportato gli alianti non se ne erano andati. Da terra gli lanciarono un segnale con un razzo – lo vidi bene – per avvertirli che l’impresa era riuscita. Intanto c’era la ‘cicogna’ che girava sopra. Al successivo segnale anche la “cicogna” atterrò sulla radura.  Mussolini scese dopo una mezz’ora. La ‘cicogna’ era pronta, in moto. Venne vicino a noi carabinieri e poliziotti  e, tutto d’un pezzo, pronunciò queste testuali parole: ‘Siete stati tutti molto gentili e io vi ringrazio: mi ricorderò di voi!’. Subito dopo rivolse la parola al commissario e al tenente e chiese: ‘Chi mi segue di voi?’.  Io ero lì vicino, sentivo bene: vidi che il tenente nicchiava un pochino: ‘Io, sa, ho famiglia, ho figli…’ E Mussolini: ‘Va bene, resta, resta!’ Intervenne il commissario e disse: ‘Allora andrò io’. E salì con il comandante tedesco’. Appena partita la ‘cicogna’, avemmo la sensazione che precipitasse, che avesse un tracollo. La vedemmo sparire di vista sotto la radura e ci dicemmo: ‘È caduta!’. Ma fu un’impressione, poi la rivedemmo risollevarsi in volo”.
E i soldati tedeschi?
“Distrussero subito gli alianti, li bruciarono. Nel frattempo altri loro aerei avevano lanciato dei paracadutisti sulla stazione di partenza della funivia, per garantirsene il controllo. Arrivò poi una loro autocolonna che li riportò via tutti, SS e paracadutisti. Il giorno dopo il tenente che era rimasto con noi ci riunì. Ci disse: ‘Mi dispiace che sia avvenuto questo, perché noi non abbiamo fatto in tempo: dovevamo trasferirlo in un altro posto, dove i tedeschi non avrebbero potuto liberarlo’. Non so quanto fosse vero”.

Dopo quell’avventura, Tascini tornò a casa e rimase nascosto fino al passaggio del fronte. Il babbo Francesco, contadino industrioso e intraprendente, lo aveva fatto studiare all’Istituto Agrario di Todi, così che nel dopoguerra poté iniziare l’attività di fattore.
“Quando partii di casa – queste parole mi sono sempre risuonate in testa – mio padre mi disse: ‘Abbiamo fatto tanti sacrifici, hai studiato, e adesso vai a fare il fattore, vai ad amministrare la roba degli altri. Stai attento – mi disse con il dito alzato – che niente ti rimanga attaccato alle mani… Tu puoi e devi vivere con il tuo’”.
Suo padre, Francesco, era di origine socialista. Dopo la guerra, diventato anch’egli piccolo proprietario, passò alla Democrazia Cristiana. Anche Ferdinando si dedicò alla politica con lo Scudo Crociato:
“Ero segretario della DC di Fratta Todina. Lo feci con entusiasmo. Mi piaceva tantissimo partecipare ai comizi, fare i cortei, cantare Biancofiore… Era l’esplosione della democrazia dopo la dittatura, proprio così… Detesto le dittature. Allora provavo avversione verso il comunismo, così come prima l’avevo provata contro il fascismo. Però ho sempre distinto il comunismo dai comunisti. Poi, per il lavoro, dovetti lasciar perdere la politica”.
E venne a Castello.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 22 febbraio 2005 epubblicata ne “L’altrapagina”, marzo 2005. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.