Al Memorandum inviato dalle potenze europee il 21 maggio 1831, che invocava “opportuni miglioramenti” politici, amministrativi e giudiziari per avviare un’“era novella” nello Stato della Chiesa, la Santa Sede rispose con riforme deboli, limitate e contraddittorie. Il risultato fu, nell’estate del 1831, la ripresa delle agitazioni nelle Province che le truppe austriache d’occupazione stavano lasciando.
Fermenti di rivolta continuarono ad agitare anche il distretto di Perugia. Un rapporto di polizia parlò di “entusiastico fanatismo rivoluzionario”, specie nel ceto impiegatizio. Serpeggiava anche per l’indolenza delle autorità pubbliche, restie a mettere in atto severe misure repressive: “Le riunioni d’individui, non già sospetti, ma sfacciatamente nemici del Governo, cantici patriottici, distintivi di rivolta pubblicamente indossati, inconvenienti sono questi da non più recar meraviglia […]”.
Due episodi che rivelavano la latente tensione accaddero a San Giustino nell’agosto del 1831. I gendarmi asserirono di aver sorpreso in due occasioni assembramenti di uomini – dai quindici ai venti, tra cui probabilmente diversi addetti alla costruzione della strada di Bocca Trabaria – che a mezzanotte si dirigevano fuori del paese e cantavano “le canzone della libertà”. In una circostanza udirono cantare “pubblicamente e con gran giubilo: evviva la libertà, evviva la religione, accidenti ai Cardinali”. Indagini più approfondite misero in luce che in realtà la canzone intonata dal gruppo conteneva semplicemente il verso “l’uccellino talà talà e viva la libertà e chi la godrà”; si trattava, secondo alcuni testimoni, di “una canzone indifferente e piuttosto amorosa ad uso Marcheggiano, senza che offendesse né il Governo, né la Religione”. Nulla di rivoluzionario, insomma; tuttavia offrì lo spunto per raccomandare “indefessamente la sorveglianza di tutti i lavoranti della nuova Strada” e per prendere provvedimenti affinché gli oppositori non spargessero “quel pestifero seme” che nutrivano in seno. È inoltre significativo che i gendarmi udirono i dimostranti – o presunti tali – parlare di una “rivoluzione nazionale” che stava per scoppiare a Rimini, una delle città più segnate dalle proteste antigovernative: ulteriore dimostrazione della facilità con la quale le idee insurrezionali potevano giungere dalla Romagna e attecchire nella valle.
Nel giugno 1832, quando da Ancona furono formulate nuove richieste di riforma al papa, pure Città di Castello fu attraversata da una manifestazione di protesta. Appena avuta notizia della scomunica papale ai promotori dell’iniziativa anconetana, il 24 giugno un gruppo di tifernati usciti da un’osteria, ai quali si accodarono dei passanti, improvvisò un corteo cantando “vogliamo la libertà” e “finirà, finirà”. Le autorità tentarono di minimizzare l’episodio, parlando di un gruppo di una quarantina di “individui della plebe, sussurroni e ubbriaconi e sicuramente facili ad attrupparsi di notte e a fare chiasso per le contrade”. La protesta rivelava invece che a nutrire una forte ostilità nei confronti del regime pontificio non era solo una minoranza di cittadini benestanti, acculturati e avvezzi alla vita politica, ma anche una crescente schiera di popolani. Del resto la minaccia fu presa sul serio, con l’arresto di sette dimostranti, tra cui il caffettiere Franco Pensa e Pietro Belletti. Li rinchiusero nel forte di Civita Castellana.
Si inquietò anche il vescovo Muzi, che ottenne di far presidiare Città di Castello da una guarnigione di 50 soldati pontifici. La Segreteria di Stato vaticana lo autorizzò inoltre a epurare il consiglio comunale, che “era stato mal formato essendovi inclusi soggetti nella maggior parte liberali”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).