Stefano Rossi. Docente di finanza tra Europa e America.

 

Perché sono finito a insegnare all’estero? Semplicemente perché solo all’estero era possibile (e probabilmente è possibile ancora) un percorso professionale basato interamente su aspirazioni, capacità e meriti…”
È una affermazione lapidaria e critica quella di Stefano Rossi, attualmente professore associato di finanza alla prestigiosa Krannert School of Management della Purdue University, nell’Indiana (Stati Uniti).
Tifernate, 38 anni, ne ha fatta di strada da quando, dopo essersi diplomato al Tecnico Commerciale di Città di Castello, è riuscito a entrare nella “mitica” Bocconi di Milano: “Da che mi ricordi, ho sempre voluto occuparmi di finanza e di economia e la Bocconi è emersa abbastanza presto come l’università di gran lunga migliore, per qualità dei docenti, del curriculum accademico proposto, e dell’apertura internazionale. Poi c’era il discorso del numero chiuso e del test d’ingresso competitivo, che mi incuriosiva e mi stimolava allo stesso tempo”.
Nella sua brillante carriera scolastica, Stefano si è laureato in economia aziendale nel 1998, ha conseguito il master in economia politica due anni dopo, sempre alla Bocconi, e infine il dottorato di ricerca in finanza alla London Business School, nel 2005. Con tale retroterra di studi, gli si sono spalancate “affascinanti” (così le definisce) opportunità professionali all’estero: “Il privilegio di poter fare quello che ho sempre sognato si è combinato con il funzionamento di un mercato globale, in cui le opportunità migliori possono capitare un po’ ovunque. E poi, al giorno d’oggi, per un numero sempre maggiore di professioni, la residenza fisica conta sempre meno, quello che conta è essere parte di una comunità internazionale sempre a portata di un clic di tastiera”.
Prima di approdare alla Purdue University, ha esercitato la docenza universitaria alla School of Economics di Stoccolma, all’Imperial College di Londra e, negli Stati Uniti, alla Cornell University. “Esperienze gratificanti” – dice Stefano – “che mi hanno dato la possibilità di conoscere tantissime persone eccezionali, con interessi simili, forti capacità e motivazioni, e ‘visioni del mondo’ mai banali, con le quali confrontarsi in ogni momento”.
Una vita di viaggi che ha dato a Stefano l’opportunità di calarsi in profondità nei Paesi che l’ospitavano e, naturalmente, nei loro ambienti universitari, dove palpitano stimolanti comunità giovanili e culturali. E il docente ne è parte attiva, mai rinchiuso nella torre d’avorio della sua ‘sapienza’: “Senz’altro i rapporti tra studente e docente sono molto più informali e interattivi all’estero rispetto all’Italia, con meno studenti per ogni docente, il che promuove una maggiore efficacia dell’insegnamento. Poi ci sono molte differenze culturali tra questi Paesi. In Svezia c’è un maggiore senso della gerarchia e quasi della sacralità della lezione universitaria: tanto per fare un esempio, gli studenti svedesi applaudono alla fine di ogni lezione. In America e Inghilterra, invece, i rapporti sono sicuramente più informali”.
Stefano vive con entusiasmo la sua esperienza di docente:
Uno degli aspetti più affascinanti è comunicare con una comunità davvero globale, sia quando si tratta di presentare risultati di ricerca di fronte a colleghi nell’ambito di convegni scientifici, sia nell’ambito di lezioni universitarie di fronte a studenti provenienti da ogni parte del mondo. Queste esperienze mi hanno insegnato come sia cruciale raggiungere la massima semplicità nell’esposizione dei concetti per poter raggiungere il maggior numero di persone. Comunicare a platee così diverse è una delle sfide più belle della professione”.
Viene da domandarsi cosa abbia da invidiare il mondo universitario italiano a quello dei paesi anglosassoni, e se abbia anch’esso dei meriti. Ecco l’opinione di Stefano: “Il sistema universitario italiano a livello ‘undergraduate’ non ha nulla da invidiare ai sistemi anglosassoni; direi anzi che in molti casi può preparare in modo più completo e rigoroso; allo stesso tempo, il sistema italiano non riconosce né tantomeno promuove l’eccellenza della ricerca ai livelli graduate e post-graduate. Questo è il suo grave limite”.
Dal suo punto di osservazione, Stefano nota importanti differenze nell’approccio agli studi tra l’Italia e altri Paesi: “In generale, all’estero le persone pensano in termini di carriera futura in modi molto pragmatici e strategici: cioè quale percorso formativo darà maggiori opportunità future, anche in funzione delle proprie preferenze e capacità. In Italia si privilegiano aspetti più astratti o anche ideali di sapore Crociano, con il risultato di un proliferare di percorsi di studio non immediatamente riconducibili alla formazione di profili professionali richiesti sul mercato del lavoro. Il motivo è di certo anche istituzionale: all’estero l’università è ‘ascensore sociale’; in Italia conta solo chi conosci, non cosa conosci. Quindi tanto vale studiare quello che piace, tanto non fa differenza per la carriera (a meno che non si vada all’estero…)”.
Il suo è un punto di osservazione privilegiato anche per rendersi conto se la gioventù emergente è in grado di affrontare le grandi emergenze mondiali ed eventualmente di dare risposte alternative: “Certo che è in grado, ma a patto di mantenere vivo l’entusiasmo e la voglia di confrontarsi con il mondo. La gioventù ha un patrimonio inestimabile di energie che può letteralmente smuovere montagne. Purtroppo nel nostro Paese pochi se ne rendono conto”.
È un tasto dolente, quindi, quello di un’Italia arroccata su posizioni retrograde, dove la difesa di antiquati privilegi tarpa le ali all’innovazione e, quindi, alle energie più giovani.
Ma è proprio così logorata l’immagine dell’Italia e degli italiani? E sono ancora radicati all’estero stereotipi negativi? Chi, come Stefano, all’estero vive qualificate esperienze di confronto, ha molto da dire al riguardo ed è una testimonianza che rende onore ai nostri ‘emigrati’: “È vero, c’è un insieme di stereotipi, non tutti necessariamente di per sé negativi (l’inaffidabilità dell’italiano, ma anche la sua gestualità, la sua eleganza, il saper vivere). Però non sono gli italiani all’estero che li perpetuano. Quasi tutti gli italiani espatriati che conosco hanno dovuto impegnarsi il doppio dei ‘locali’ per affermarsi in qualche modo ed integrarsi, e questo viene apprezzato e anche ammirato ovunque”.

Vi è un qualcosa, però, che mina irreparabilmente la nostra immagine all’estero: “Sono le notizie provenienti dall’Italia che perpetuano uno stereotipo di paese ‘disperato ma non serio’. E ci si trova nella situazione di non sapere cosa rispondere a domande che all’estero trovano naturale porsi rispetto al non-funzionamento delle istituzioni in Italia”.

Stefano sottolinea con palese rammarico limiti e difetti del nostro Paese, perché sente “fortissima un’identità italiana, per cultura, storia e tradizioni”. Quanto all’attaccamento alla sua – e nostra – terra d’origine, lo vive con il distacco critico di una persona di cultura e in costante viaggio da anni: “Non sono sicurissimo di cosa sia un’identità altotiberina e tifernate, intesa come identità ben definita e separata da un’identità più genericamente centro-italiana. Da un lato, ogni volta che torno a Città di Castello, mi sembra che ben poco sia cambiato, e mi è facile ritrovarmi nei luoghi familiari con amici e persone conosciute da sempre. D’altro canto, noto che, come le altre regioni del centro, l’Alta Valle del Tevere è da sempre essenzialmente tagliata fuori dal resto d’Italia e d’Europa. La mia impressione è che sia molto simile ad altre province, italiane o straniere”.

Una dimensione ‘provinciale’ che, secondo Stefano, si manifesta in atteggiamenti di chiusura e può portare all’emarginazione: “In effetti intendo ‘provinciale’ nell’accezione consueta di conservatrice, avversa al rischio, e stanziale: una dimensione che a mio parere domina su ogni altra considerazione. Anzi, semmai le persone nell’Alta Valle del Tevere mi sembrano molto più stanziali e molto meno esploratrici di quelle cresciute in altre province, particolarmente di province in Toscana, Emilia, Piemonte, Veneto e Lombardia, per molti versi anche molto meno ‘di confine’ della nostra”.

Stefano sottolinea il peso dell’emarginazione della valle: “Non c’è un’autostrada, la E-45 è un cantiere, della superstrada per Arezzo sono stati completati solo pochi chilometri e relativamente di recente; anche l’attuale volo Ryanair da Perugia per Londra sembra essere preferito solo da turisti inglesi. E gli altotiberini? Non sembrano importarsene, ma anzi quasi prediligere questo isolamento”.

Un atteggiamento conservatore, o di abulica rassegnazione, contro il quale Stefano mette in guardia: “Se identità e radici altotiberine significano soltanto difesa a oltranza del localismo e chiusura al resto del mondo, questo non lo posso certo condividere”.

L’intervista è stata pubblicata nel numero di ottobre 2013 de “L’altrapagina”.