Gabriotti si trattenne in città giusto il tempo di raccontare agli amici l’eccitante esperienza di libertà vissuta a Pietralunga. Passando per i giardini pubblici del Cassero si imbatté nella cugina Zola, che gli chiese come mai fosse così abbronzato. Le disse: "Sono stato lassù da quei figlioli; ho fatto il Primo Maggio con loro. Quanto sono stato bene questi giorni lassù, al sole…" Poi sollevò una braca dei pantaloni e le mostrò delle calze di lana: "Vedi? Sono degli inglesi. M’ero bagnato le scarpe per attraversare un fosso, così quei figlioli m’han dato un paio delle calze che gli hanno paracadutato gli inglesi." La cugina si guardò attorno preoccupata e lo rimproverò: "Sta’ atènto, Venanzio, cerca de sta’ zitto, nle dì ste cose, perché staolta, se te chiàpono, nte la perdonano!" Ma Gabriotti fece spallucce: "Oh quanto sei corbella; manco ci devi pensare…".
Nella stessa giornata incontrò il generale Vito Corsi e si fermò a parlare del più e del meno; al momento di salutarlo, gli disse in tutta schiettezza che voleva andare ad ascoltare Radio Londra. Quindi ripartì in bicicletta per Morra con il fidato Bologni, per raccordarsi più efficacemente con le bande della "Pio Borri". Fu ospite dei Nicasi ed ebbe modo di riferire i fatti di Pietralunga e le decisioni prese dal Comitato tifernate. La mattina del 4 maggio fece ritorno a Città di Castello.
Gli amici che incontrò quel giorno gli espressero tutta la loro preoccupazione. Riferirono che i fascisti s’erano ormai convinti che quei giri in campagna avessero poco a che vedere con ragioni d’ufficio. Inoltre serpeggiava tra di essi un crescente nervosismo. Orazio Puletti aveva appena segnalato a Rocchi che la situazione nella valle era ormai insostenibile e chiedeva un giro di vite contro i partigiani.
Si intensificò quindi l’attività repressiva e giunsero reparti delle SS a dar man forte ai militi italiani. In quei giorni alcuni soldati tedeschi perquisirono l’abitazione di don Bernardo Topi alla ricerca di documenti. La nipote del sacerdote, Francesca, fu testimone di quei momenti di terrore: “Un soldato mi si rivolse minacciosamente: ‘Tu devi dirmi dove sono i documenti di Gabriotti’. Buttarono tutto all’aria per trovarli, ma fortunatamente non ci riuscirono".
Gabriotti non dette ascolto a quanti ritenevano il suo arresto molto probabile, addirittura imminente. Era convinto di poter giustificare ogni suo spostamento con motivi di lavoro. Inoltre sembrò non voler accettare l’idea che lo si considerasse un pericoloso nemico da neutralizzare. Forse, ingenuamente, credette che la storia della sua vita, segnata da amore patrio e altruismo, lo salvaguardasse dalle minacce più gravi; o forse sentì di dover affrontare anche in quella circostanza il pericolo con la spregiudicatezza e la libertà d’animo che gli avevano permesso fino ad allora di superare ogni difficoltà. Senza mostrare tentennamenti di sorta, decise di rimanere in città.
L’estratto è una sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).