Cinque mesi dopo l’assemblea dei soci confermava come procuratore Rossi e gli affiancava Sante Santinelli. Ma alla nuova coppia dirigente mancava il necessario affiatamento. Santinelli affermò di nutrire “riserve sull’indirizzo della Fattoria” e subordinò l’accettazione dell’incarico a una riforma statutaria che trasformasse il consorzio in una società anonima di tipo industriale. Rossi si erse a paladino della forma ormai rodata della Fattoria, non certo un’“anticaglia” da adeguare ai tempi, bensì un organismo che aveva vissuto uno sviluppo “prodigioso” nell’interesse dei soci e della collettività; si oppose in modo intransigente a trasformazioni inconsulte e lanciò un appello affinché le caratteristiche del consorzio rimanessero “immutate nella sostanza”. Entrambi i procuratori si presentarono dimissionari all’assemblea dei soci del 20 maggio 1948 e, quando si giunse alle votazioni per la rielezione delle cariche, Rossi chiese che il suo nome non venisse abbinato a quello di Santinelli, considerata la loro “insanabile incompatibilità”. I soci confermarono a grande maggioranza la fiducia a Sergio Rossi, che ottenne 641 voti; come secondo procuratore elessero l’avv. Giacomo Bufalini, con 502 voti. Santinelli ne ebbe 259.
La Fattoria stava vivendo la prima seria e amara spaccatura al suo interno. Anche perché lo scontro sugli indirizzi aziendali fu avvelenato da insinuazioni e attacchi personali che portarono in superficie l’ostilità di alcuni nei confronti di Rossi e Garinei. La minoranza dissidente contestò la disorganizzazione degli uffici amministrativi (le risposero che alla Fattoria non erano “tutti così scemi da lasciare che la cassiera fosse a capo dell’ufficio di contabilità”), una presunta incompatibilità di Garinei come direttore, dal momento che dal 1941 aveva una sua concessione a Trestina (ma da allora – si ribatté – la produzione della Fattoria era cresciuta da 16 mila a 28 mila quintali) e l’assunzione del figlio di Rossi come perito (scelta tuttavia condivisa dallo stesso Santinelli, perché il neo-assunto “aveva i titoli ed era l’unico aspirante locale”). Nel rigettare l’accusa di aver fatto le cose troppo in grande e senza economia, Garinei rivendicò fieramente il senso di certe scelte: “È nostro dovere mettere gli operai a lavorare in sale pienamente rispondenti alle migliori condizioni igieniche possibili, e questo lo abbiamo fatto e non ne sentiamo alcun rammarico, poiché l’operaio meglio vive e più rende. […] È stata la nostra intenzione di fare uno stabilimento che non fosse una capanna ma un luogo accogliente: l’abbiamo fatto, e voi dovreste esserne orgogliosi al pari di noi, sia nell’interesse dei nostri 1.000 operai che vi passano tutta la loro vita, che nell’interesse della lavorazione che qui dà un rendimento superiore a quello di qualsiasi altro magazzino del genere”. E ancora: “Ci siamo fatti una maestranza che veramente lavora e produce. Quelle forme di assistenza che possono sembrare a prima vista costose sono più economiche di quanto non si creda, e si traducono in minori costi di lavorazione”. Anche Rossi volle togliersi qualche sassolino dalle scarpe: se avessimo voluto trasformare la Fattoria in un società anonima – affermò – “l’avremmo fatta fra i cinque fondatori del 1912 [sic] o fra i venti del 1919; oggi saremmo tutti più volte milionari”.
Nei mesi successivi si discusse ancora la questione di eventuali riforme statutarie, considerato che l’incremento dei soci e il lievitare della produzione (stava raggiungendo i 30.000 quintali) imponevano comunque una riorganizzazione e una maggiore efficienza. Fu chiesta la consulenza del prof. Isidoro La Lumia (già coinvolto nel 1944, all’epoca del tentativo di socializzazione). Il giurista fece notare che, alla luce dei risultati raggiunti, lo statuto vigente si era dimostrato un “ottimo strumento” e sconsigliò radicali trasformazioni, che sarebbero state o troppo costose, o troppo rischiose. Ci si limitò quindi, in sostanza, a sostituire le figure dei procuratori con quelle di un presidente e di un presidente aggiunto; l’organismo dirigente rimase costituito da nove consiglieri. Le elezioni per il rinnovo delle cariche, il 17 febbraio 1949, proiettarono alla presidenza della Fattoria Sergio Rossi con 591 voti su 622; presidente aggiunto divenne il geometra Vittorio Vincenti.
Con l’entrata in carica della nuova amministrazione, maturò il definitivo distacco di Dino Garinei. Aveva già espresso la sua irrevocabile decisione, rinunciando a ogni compenso dal 1° ottobre 1948, ma continuando a rendersi utile quando necessario. Intanto aveva già individuato il successore in Silvio Donadoni, assunto come tecnico nel 1947 e poi elevato al ruolo di vice-direttore. Convinto che Donadoni sarebbe stato “un nuovo direttore meritevole della fiducia di tutti”, Garinei si fece quindi da parte. Nel prendere atto della sua scelta, nell’assemblea del 28 gennaio 1950 Sergio Rossi ne sottolineò le “eccezionali qualità di tecnico, di organizzatore e di animatore”, sempre in grado di trovare le soluzioni più appropriate “con prontezza e con genialità”. Rossi, che lo aveva avuto al fianco per quasi 40 anni, aggiunse: “Con gli amministratori, anche quando vi fu qualche secondaria divergenza di idee, fu fedele e deferente fino allo scrupolo, nel convincimento istintivo che ogni divergenza dovesse comporsi nel superiore interesse della Fattoria. Con gli operai seppe sempre essere cordiale e scherzoso, ottenendo da loro con questa fraternità il rispetto e l’affetto della grandissima maggioranza”.