Giuseppe Ranieri, della frazione tifernate di Riosecco, raccontò allo zio sacerdote come fu travolto da una valanga, e poi salvato, nel marzo del 1916:
“Il giorno 9 marzo come soldati che conoscono il loro dovere andavamo lieti e tranquilli, come si può essere quassù, a sgombrare una strada dalla neve che abbondantissima era caduta durante la notte. Erano circa le otto del mattino quando una sessantina di uomini pasciuti del solo caffè e con la razione di carne in tasca per il pranzo, già tutti bianchi per la neve che incessantemente cadeva lenta e silenziosa, solcavano nella strada più di mezzo metro di neve ancor fresca e già pronti a mettersi al lavoro.
Tutto ad un tratto dalla nostra sinistra si ode un fragoroso rumore che come per istinto ci fa volgere tutti dallo stesso lato. Orribile vista!… Una valanga che travolge le più grosse piante precipita terribile dalla montagna a pochi passi da noi. Si fa un grido generale, tutti tentano di scappare, ma subito siamo tutti persuasi che l’ora fatale è sopraggiunta. Le grida diventano urli di disperazione. Già un nevischio fitto ci ha nascosti tutti, poi forti ondate di neve, siamo già sepolti. Sepolti, ma non morti, ma l’ultimo anelito non tarderà ad uscire dal nostro corpo.
Nei primi momenti che passai dentro la mia tomba la speranza non era ancora perduta e provai a raspare la neve già dura in cerca d’un po’ d’aria. Ma… inutile lavoro, che mi rendeva il respiro più pesante e forse la morte più vicina. Perduta è ormai ogni speranza, inutile ogni sforzo, bisogna rassegnarsi al destino fatale. Abbandonato ogni altro pensiero rivolgo il mio cuore alle persone tanto care quanto lontane, mando l’addio a quanto vi ha di bello e amabile quaggiù e in ultimo, dopo aver invocato più volte la Misericordia di Dio invoco anche la morte. Si… la morte che venga presto a liberarmi da questa straziante agonia.
Tutto questo è passato dentro un’ora o mezz’ora forse. Poi non ricordo più nulla. Verso le ore otto di sera mi ritrovo dentro un sacco a pelo con un cumulo di coperte sopra e i piedi e le mani ancor quasi gelati. Mi risveglio come dopo un lungo e pauroso sogno e meravigliandomi del luogo dove mi trovo vado pensando come e chi mi avesse portato in quel paradiso. Ma non mi torna alla mente che la valanga, la sepoltura, la disperazione della vita. Ma mentre io vado così rintracciando i miei svariati pensieri alcuni miei compagni mi si avvicinano per assicurarsi se nel mio stato si conosceva alcun miglioramento.
I miei bravi amici dopo aver conosciuto il mio miglioramento cominciarono a farmi la storia di quello che era accaduto dopo il nostro seppellimento. Mi dissero come io stesso me lo immaginavo, che di più di sessanta che eravamo nessuno rimase fuori della valanga, nessuno che avesse potuto dar avviso del nostro seppellimento. Quando si immaginarono del nostro miserabile stato eran già passate quattr’ore dalla terribile catastrofe. Mi hanno detto che io fui dissepolto verso le sei di sera. Dieci ore di sepoltura e poi son risuscitato.
Quando mi scoprirono di tra la neve due compaesani, come mi hanno raccontato, mi presero e mi trasportarono alla camera di medicazione del capitano medico, il quale mi fece due iniezioni, mi fecero massaggi, mi spogliarono del tutto rivestendomi di panni asciutti ed io di nulla mi accorsi, nulla sentii; ero fuori dei sensi intellettuali e senza forza alcuna sui miei nervi.
Son già trascorsi otto giorni ed ora son quasi guarito; forse domani mi toccherà a far servizio […]. Tuttavia posso esser contento, che di sessanta e più di uomini che eravamo, dodici solo sono i redivivi fra i quali ho avuto la fortuna di esserci anch’io […].
Due altre compagnie del nostro reggimento sono state decimate dentro le proprie baracche fatte crollare da altre valanghe”.
Giuseppe Ranieri tornò a combattere. Morì sul Piave il 22 novembre 1917, colpito da un proiettile di fucile.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.