Nel febbraio del 1912 “La Rivendicazione” dette ampio risalto a un articolo firmato Feuerbach, lo pseudonimo dietro al quale, da allora, Giulio Pierangeli si sarebbe spesso celato. Dichiarava una convinta adesione alla scelta di Filippo Turati e della grande maggioranza del partito socialista di “non perdersi nella palude ministeriale”, nella “transigenza” e nelle “sottili astuzie” tattiche, bensì di riaffermare i propositi di lotta e di “far guerra alla guerra” di Libia.
Qualche mese dopo, in occasione del congresso del P.S.I. di Reggio Emilia, che si concluse con la vittoria dell’ala rivoluzionaria del partito e con l’espulsione della corrente moderata di Leonida Bissolati, Giulio Pierangeli professava ancora la sua sintonia con Turati, con“tutta la sua incertezza sulla via da seguirsi”. Ammonì il movimento socialista a rifuggire dai “circoletti di partito, che sono cosa piccola e meschina”; bisognava invece incarnarsi nelle organizzazioni operaie, senza perdersi in “piccole conquiste quotidiane” e in “fraseologie ubriacanti”. Il sostanziale scetticismo sulle capacità del partito di svolgere il suo compito era temperato da una fede quasi mistica nelle potenzialità del movimento socialista e nel sicuro raggiungimento dei traguardi di giustizia e di progresso.
L’articolo suscitò dibattito tra i socialisti tifernati. Un militante replicò che le tesi di Pierangeli non avevano trovato “unanimità di consensi”; riteneva ingiustificato il suo “pessimismo” nei riguardi del partito socialista e nutriva invece fiducia nei “rivoluzionari” assurti alla sua guida.
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Nel giugno 1913 Pierangeli redasse ne “La Rivendicazione” un editoriale sulla spinosa questione del rapporto fra socialismo e religione. Rifuggì da astratte considerazioni ideologiche, per soffermarsi sul ruolo sociale ed economico del clero: “I preti vivono lontano dalla produzione: essi non sono né capitalisti né proletarii: vivono degli uni e degli altri. Sono dei parassiti sociali, che si guadagnano il paradiso in questa terra, facendo gli intermediarii fra gli uomini e Dio. […] Uniti dal vestiario dall’educazione dalla mentalità tendono a sovrapporre i loro particolari interessi di ceto a quelli delle classi produttrici e, poiché chi può meglio giovar loro è il capitalismo padronale, essi politicamente e socialmente sono per i padroni e per i signori, contro gli operai e i contadini”. Solo tali considerazioni – secondo Pierangeli – potevano giustificare l’anticlericalismo dei socialisti. Prese infatti le distanze dagli “anticlericali chiacchieroni”: “[…] Il prete ha, ancora, una funzione sociale; la chiesa – anche così come è – è un centro di civiltà, perché serve a distinguere gli uomini dai bruti, perché è una organizzazione sociale. I contadini che vivrebbero isolati gli uni dagli altri in tutte le manifestazioni di vita hanno nel mercato nell’osteria nella chiesa il loro centro civile. Se si sopprimesse con un colpo di bacchetta fatata o in forza di un decreto rivoluzionario la organizzazione chiesastica, la umanità civile non avrebbe di che rallegrarsi: alla barbarie attuale si sostituirebbe una barbarie peggiore. Ciò per gli anticlericali è eresia, ma è la verità”. Naturalmente spettava ai socialisti dar vita a nuovi centri di civiltà nelle campagne: attraverso le leghe, il movimento dei lavoratori non doveva esprimere solo la “volontà egoistica di star meglio per se stessi” e di accrescere il benessere materiale, ma anche “lo sforzo verso la emancipazione umana”, “il miglioramento morale e intellettuale” e l’incremento della produzione.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.