Con la costituzione formale della Camera del Lavoro, a maggio, e l’elezione di Aspromonte Bucchi alla segreteria, il movimento dei lavoratori si sentì abbastanza forte da poter affrontare la prove più dure. L’incombente rinnovo del patto colonico provinciale rappresentava un banco di prova dall’indubbio significato politico, oltre che sindacale. L’agitazione mezzadrile prese l’avvio a giugno. Per quanto l’agitazione riguardasse l’intera provincia, nell’Alta Valle del Tevere lo scontro fu più vigoroso che altrove. I proprietari si rifiutarono di trattare, invocando l’intervento della forza pubblica per reprimere gli “attentati alla libertà del lavoro”. Non meno intransigenti apparvero i socialisti, che vollero mantenere politicamente compatto il fronte sindacale ed esclusero una possibile unità d’azione con le leghe “bianche”.
Il fronte dei proprietari si incrinò il 18 luglio, quando quelli di Spoleto firmarono il testo dell’accordo. Ma i possidenti altotiberini non cedettero. Fu allora che la Federazione Contadini giocò la carta più volte annunciata. Il 24 luglio i mezzadri radunarono migliaia di capi di bestiame a Città di Castello, Trestina e Pistrino, minacciando la paralisi completa di ogni attività agricola e l’integrità stessa del patrimonio dei proprietari. Il pomeriggio di quello stesso giorno molti di essi raggiunsero alla spicciolata il palazzo comunale e cominciarono a sottoscrivere il testo del patto concordato a Spoleto.
Quell’accordo fu firmato anche da Venanzio Gabriotti, insieme ad altri dirigenti provinciali dell’Unione del Lavoro. Esclusi fino all’ultimo momento dal tavolo delle trattative, i cattolici non mancarono di polemizzare per tale discriminazione. Solo negli ultimissimi giorni dell’agitazione le esigenze tattiche imposero la ricomposizione di un fronte unitario tra sindacati rossi e bianchi e pure l’Unione del Lavoro poté contribuire a determinare i termini del concordato. Ma il nuovo affronto accentuò il già acceso antagonismo con i socialisti. Minimizzando il ruolo dell’Unione nella vertenza, “Voce di Popolo” attribuì ad essi la paternità di un accordo giudicato senza mezzi termini “disastroso”: “C’è da chiedere agli organizzatori rossi se pur valeva la pena mandare in malora tanto grano, far rimanere indietro tanto lavoro, esasperare così acerbamente gli animi, quando tutto questo ai contadini non doveva fruttare proprio niente, almeno da noi”. I cattolici accusarono quindi gli avversari di aver mirato esclusivamente ad inasprire lo scontento dei contadini per instaurare un clima di mobilitazione rivoluzionaria.
In realtà i benefici di natura economica determinati dal concordato del luglio 1920 si sarebbe rivelati non secondari, tanto da scatenare la veemente reazione della borghesia agraria più conservatrice. Quanto al risultato politico, apparve ai socialisti esaltante. Per la prima volta il movimento mezzadrile aveva avuto una consistenza regionale e una compattezza contro la quale s’erano infrante le resistenze dei proprietari. I contadini sembravano finalmente lasciare per sempre alle spalle secoli di arretratezza e di sottomissione.
L’estratto è una breve sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).