L’intervista a mons. Beniamino Schivo (1910-2012) risale al giugno 2004, quando il sacerdote aveva dunque 94 anni, molto ben portati. Di origine veneta, fu portato a Città di Castello nel 1923 dal vescovo Carlo Liviero. Ordinato sacerdote nel 1933, ha mantenuto la carica di rettore del seminario diocesano dal 1935 al 1970. Poi si è dedicato alla biblioteca “Storti-Guerri” del seminario, agli archivi storici della diocesi e al processo di beatificazione di Liviero. Con Schivo è possibile un viaggio a ritroso verso gli anni del fascismo, per esaminare i rapporti intercorsi tra Chiesa tifernate e regime. Durante il passaggio del fronte bellico, nell’estate 1944, Schivo svolse opera meritoria allestendo nei locali del seminario vescovile un ospedale di emergenza per soccorrere malati e feriti. Aiutò a sfuggire alla cattura una famiglia di ebrei di origine tedesca, i Korn. Per questo è stato proclamato Giusto fra le Nazioni dalla Fondazione Yad Vashem di Gerusalemme.
Lei ha conosciuto bene i due vescovi di epoca fascista, Carlo Liviero e Filippo Maria Cipriani. Che atteggiamento hanno tenuto nei confronti del regime?
“Beh, erano due uomini molti diversi l’uno dall’altro, benché entrambi grandi personalità. Liviero, nonostante il suo temperamento schietto, mantenne in genere un atteggiamento di prudenza”.
Era vescovo lui, nel 1929, quando vi fu, con il Concordato, la riconciliazione fra Stato e Chiesa.
“Fu in effetti un momento di generale consenso. Il Concordato veniva a sanare una situazione per la quale i cattolici da decenni stavano soffrendo. Mi ricordo che quando venne questa notizia ero ad Assisi, al seminario regionale, e ci fu grande gioia in tutti”.
Non mancarono però tensioni con il regime.
“Durante l’episcopato di Liviero ci sono stati due momenti critici: il primo quando il regime pretese la soppressione dei Giovani Esploratori Cattolici (vi lavoravano don Pieggi, don Bartolini, Torrioli e altri laici); il secondo nel 1931, con la minaccia di sciogliere i circoli dell’Azione Cattolica, quasi che fossero delle formazioni politiche”.
Vi fu una recrudescenza di squadrismo a danno dei cattolici.
“Vennero aggrediti don Luigi Consolini e don Giovan Battista Battilani. Ma si trattava di una montatura del regime. La Chiesa non faceva politica: è rimasta fuori dalla politica sia prima che dopo il Concordato”.
Liviero non era il tipo da subire passivamente aggressioni.
“Non gli mancava certo il coraggio per intervenire nei momenti in cui c’era bisogno. Non risparmiò interventi in cattedrale con pubbliche deplorazioni nei confronti di quelli che avevano maltrattato i sacerdoti. Dopo le aggressioni a Battilani e Consolini il prefetto di Perugia gli disse: ‘Eccellenza, sono solo ragazzate’. E Liviero, con quella voce formidabile, al telefono: ‘Ma che ragazzate, qui mi ammazzano i preti; se non sono tranquillo io li faccio rientrare tutti in vescovado e in seminario: poi farà i conti lei con la gente!’”.
Liviero morì nel 1932. Dopo il breve intervallo del vescovo Crotti, subentrò Filippo Maria Cipriani. La sua figura, rispetto a quella di Liviero, ci appare, oggi, più “politica”, più attenta ai rapporti politico-istituzionali.
“Senz’altro. Ma era anche un’altra epoca. L’inizio del suo episcopato coincise con il periodo di massimo consenso verso il regime”.
In effetti, in una sua pastorale quaresimale del 1936 il vescovo Cipriani invitò esplicitamente i cattolici a collaborare e – così scrisse – ad “entrare in pieno” nelle opere del regime e persino nel Partito Fascista.
“Ricordiamo che quella era l’epoca della guerra di Spagna. Arrivavano continuamente dalla Spagna notizie di aggressioni, uccisioni, stragi, nei conventi, nelle parrocchie, nei confronti di sacerdoti, suore e laici. Si soffriva molto per quello che veniva fatto ai nostri fratelli in Spagna. Siccome il regime fascista, per altri motivi, aveva appoggiato la reazione contro la repubblica rossa della Spagna, inviando anche reparti militari, non escludo che il vescovo Cipriani abbia incoraggiato questa azione dell’autorità fascista per aiutare la Spagna a uscire da quella situazione”.
Una convergenza di interessi, dunque, tra regime e Chiesa.
“È evidente… La Chiesa subisce le persecuzioni, ma quando può evitarle, o farle cessare…”
Ritiene che la Chiesa di Città di Castello, nel suo complesso, si sia adattata a convivere con il regime fascista?
“Penso che in realtà sia avvenuto proprio questo; anche perché la Chiesa non aveva nessun vantaggio a mettersi in polemica con chiunque. Anche se non approva le dottrine o certi indirizzi di carattere politico, la Chiesa ha la missione di annunciare il Vangelo. In 2000 anni di storia, quante volte si sarà trovata a confrontarsi o anche, è vero, a soffrire a motivo dei regimi nei quali si è trovata a operare”
Quindi una sostanziale accettazione del regime fascista.
“Chiamiamola appunto accettazione passiva. Ma c’era anche una certa prudenza e cautela. Io di preti ‘caldi’ nei confronti del regime ricordo solo mons. Enrico Giovagnoli. Lui non faceva mistero della sua scelta: anzi, era anche esponente del partito fascista sin dalle origini di questo movimento politico, assumendo anche delle cariche all’interno del partito. Questo lo sapevamo tutti. Ma lui andava per la sua strada. Non ricordo altri preti che si siano apertamente schierati per il fascismo”.
Che rapporto c’era tra il vescovo e Giovagnoli?
“Cipriani lo teneva in buona considerazione, come uomo di cultura soprattutto. E predicava bene. Lo aiutò a ricevere l’onorificenza del monsignorato. Giovagnoli era anche un buon prete, se vogliamo. Lo criticavano comunque perché, benché canonico, in cattedrale si faceva vedere poco, per i suoi troppi impegni. La sua simpatia politica per il fascismo non la trasferiva nei rapporti con il clero”.
Ce n’erano di sacerdoti critici verso il fascismo?
“Sì, ne ho conosciuti molti i quali, come dire, subivano la situazione ed esprimevano la loro critica, magari bonariamente”.
Chi, ad esempio?
“Chiaramente mons. Vincenzo Pieggi. Con lui sono vissuto insieme quattro anni in seminario. Era ostile al regime”.
Eppure lui era il cappellano dell’Opera Nazionale Balilla, l’ente preposto a plasmare in senso fascista le nuove generazioni di italiani.
“Pieggi era assistente diocesano della gioventù, e quindi aveva un compito pastorale proprio nei confronti dei giovani. Sicuramente ha visto questo incarico nell’Opera Balilla come una possibilità per avvicinare i giovani”.
Potrebbe apparire, oggi, che manteneva i piedi su due staffe.
“Non mi sembra che Pieggi fosse un tipo opportunista. Era un uomo che viveva il momento storico e cercò di essere un ottimo sacerdote nella situazione in cui si trovava. Risentiva anche di contatti con altri ambienti, oltre che quello ecclesiale. Credo che respirasse anche l’aria che circolava nella sezione degli ex combattenti. Come mutilato di della Grande Guerra aveva molti contatti con i combattenti, partecipava sempre alle loro gite. Ma non condivideva sicuramente il fascismo. Ricordo una barzelletta contro il regime che Pieggi mi raccontava: ‘La Russia ha Baffone, la Germania ha Baffino, noi abbiamo Buffone’”.
Quali altri sacerdoti erano contro il regime?
“Sicuramente Battilani, a Petrelle; ma non è che nemmeno lui andasse continuamente in giro a sbraitare contro il regime. E poi, per ricordarne solo alcuni, don Serafino Rondini, a Pistrino; morì vittima di mitragliamento. E don Silvio Palazzoli, parroco a San Secondo; don Agostino Bartolini, a Badia, don Carlo Pazzaglia, a Leoncini, don Gino Tanzi, a Morra, mons. Bernardo Topi, a Ronti”.
In gran parte preti di campagna: lei può conformare l’esistenza di un diffuso antifascismo in campagna, assai più che in città?
“Questo non lo potrei dire, tanto più che sono stato sempre in seminario. Non ero in condizione di sentire tutte le opinioni”.
Possiamo dire che anche a Città di Castello l’introduzione delle leggi razziali determinò una seria incrinatura dei rapporti tra mondo cattolico e regime?
“Senza dubbio. Furono subito condannate da Pio XI e Pio XII con interventi molto forti. Io sono convinto che in Italia le leggi razziali non sono mai state accettate con convinzione. Anche a Città di Castello posso testimoniare che ci fu un rigetto di quelle leggi”.
Non ci fu però, mi sembra, una altrettanto decisa riprovazione della guerra.
“Ma io penso di si… A parte il fatto che, per la Chiesa, le guerre sono sempre deprecabili. Ricordo che la guerra fu considerata nel mondo cattolico con molta preoccupazione, con molta freddezza, se vogliamo. Solo mons. Giovagnoli incitava a partecipare alla guerra. Me lo ricordo proprio in piazza, di fronte alla Cassa di Risparmio: c’era un assembramento e su una specie di palco Giovagnoli comiziava. Mi dette un po’ fastidio, attaccava certe figure – diceva lui – ‘che rimangono in città a lustrare i marciapiedi e non vanno a combattere’”.
Che atteggiamento avevano le autorità fasciste nei confronti della Chiesa?
“In genere un atteggiamento rispettoso. Ma noi ci rendevamo conto che portavano avanti una politica di conquista del consenso”.
Come vivevate in ambito cattolico il fatto che il regime pretendesse l’egemonia dell’educazione della gioventù, per plasmare una nuova generazione di italiani fascisti?
“Si avvertiva senz’altro questo nuovo taglio dell’educazione giovanile dato dal regime. Io ero responsabile della scuola elementare vescovile e mi ricordo delle circolari che prescrivevano che i ragazzi dovevano andare il sabato alle adunate. E li volevano inquadrati tutti in divisa: così dovevamo convincere le famiglie a comperare la divisa da balilla per i loro figli”.
Non la sentivate come una prepotenza?
“Penso di si. Ma non è che avevamo tutti i giorni la sensazione di avere i fucili puntati addosso. Nonostante il loro esplicito progetto di controllare la formazione della gioventù, in realtà nelle parrocchie i parroci continuavano la loro attività pastorale, per quanto riguarda il catechismo e l’azione spirituale. Nessuno li andava a disturbare minimamente in questo. Il regime impose all’Azione Cattolica di non svolgere attività che non fossero di natura prettamente religiosa. La pastorale spirituale non veniva dunque ostacolata. E siccome allora non mancava la voglia di lavorare da parte del vescovo e di tanti preti e laici, fu quello un periodo nel quale l’Azione Cattolica fiorì. È ancora vivo il ricordo dei dirigenti di allora: Giuseppe Torrioli e Virginia Sinnati. All’epoca della morte di Liviero, l’A. C. di Città di Castello era in testa a tutte quelle umbre”.
Come giudicavate l’attività del Fascio Femminile, al quale il regime demandava aspetti importanti della sua politica assistenziale?
“Anche la Chiesa aveva i suoi strumenti per aiutare gli indigenti: le donne cattoliche, le Pie Donne di San Vincenzo… La sua azione, da questo punto di vista, era autonoma da quella del regime. C’era anche molta ironia sulle donne fasciste, sulle massaie rurali: su queste ‘soldatesse’ che si davano una certa aria. Battute scherzose, anche maligne. C’era qualche fanatica; qualche gruppetto si distingueva per il suo attivismo, ma ispirava poca fiducia. Comunque erano molto poche”.
Non è che destasse sospetto nella Chiesa l’attività pubblica delle donne fasciste, che per la prima volta partecipavano direttamente alla vita politica?
“L’Azione Cattolica femminile era la più affermata, sia nel campo delle ragazze, sia nel campo delle donne. Aveva un compito missionario, di apostolato, di collaborazione con la Chiesa. E quindi c’era già un’esperienza di emancipazione, se vogliamo così, della donna attraverso queste organizzazioni cattoliche. La signorina Sinnati girava tutta la diocesi per costituire gruppi di Azione Cattolica in tutte le parrocchie. I preti scherzavano, dicendo che non c’erano più le visite pastorali, ma le visite della Sinnati”.
Un personaggio autorevole del mondo cattolico, notoriamente antifascista, fu Venanzio Gabriotti.
“Gabriotti fu protetto sia da Liviero, con il quale aveva una frequentazione quotidiana, sia da Cipriani. Si sapeva che era antifascista; ma sapevamo anche che s’intrufolava fra i fascisti, aveva amici anche tra di loro, perché gli chiedevano spesso dei favori. Cipriani lo difese, anche perché al vescovo piaceva che si conoscessero le cose che venivano fatte e Gabriotti era bravissimo a pubblicizzarle attraverso la stampa. Lui inviava sempre corrispondenze alla stampa sull’attività ecclesiale. Tanto è vero che dopo la morte di Gabriotti Cipriani si lamentò: ‘Prima facevamo tante cose; adesso sembra che non si faccia più niente’”.
Che ascendente aveva Gabriotti nei confronti del resto del clero?
“Come amministratore dei beni ecclesiastici non è che fosse gran che ben visto dal clero. Perché c’erano ogni tanto dei conflitti di carattere amministrativo. Abbastanza spesso i sacerdoti avevano da fare i conti con Gabriotti. Lui era pronto ad aiutare e a favorire, però, come avviene spesso, chi amministra è sempre sospettato di non essere giusto sempre con tutti. Per cui non direi che fosse visto con grande simpatia da parte di tutto il clero. Lui accomodava tutto, ma con i suoi sistemi, che talvolta sollevavano dubbi e sospetti”.
Intervista effettuata da Alvaro Tcchini e pubblicata quasi integralmente in “L’altrapagina”, giugno 2004. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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