Prigionieri austro-ungarici al lavoro presso Aboca.
Indicazioni profilattiche comunicate dal commissario prefettizio di Sansepolcro.
Divieto di commemorazione dei defunti.
Scorcio di Sansepolcro all'inizio del '900.

Sansepolcro: la “spagnola” tra i prigionieri di Aboca

In una corrispondenza da Sansepolcro il 28 settembre 1918, “La Rivendicazione” dette notizia della recrudescenza, da fine agosto, di una forma influenzale che a primavera era stata fatale a qualche soldato del distaccamento locale. E affermò che a nulla erano valse le sollecitazioni all’ufficio di igiene per eliminare i pericolosi focolai di infezione: “Il nostro paese è stato così negletto, così trascurato a questo proposito. Le immondizie sono accumulate ovunque, per le vie, per i marciapiedi, nei luoghi di passeggio. Bisogna turarsi il naso spesso se si vuole transitare da qualche luogo”.
Proprio a quell’ultimo scorcio di settembre risalgono le prime notizie di archivio sull’epidemia influenzale. La “spagnola” si stava diffondendo pesantemente tra i prigionieri austro-ungarici impiegati ad Aboca nelle lavorazioni boschive per il Commissariato Generale per i Combustibili Nazionali. Il medico condotto Giulio Cesare Scatolari, incaricato di fornire loro assistenza sanitaria, chiese al direttore dell’ospedale di ricoverarne alcuni. Lo suggerì come opportuno gesto di umanità, privo di conseguenze per la popolazione locale: “non possono recare alcun danno, dal momento che già anche in paese abbiamo molti casi di tale malattia”. Ben diversa fu l’opinione del direttore, che avversò il ricovero sia perché l’ospedale disponeva “di mezzi limitatissimi e di ambienti ristretti e mal situati”, con due sole stanzette a disposizione per l’isolamento degli affetti da malattie infettive, sia per il rischio di contagio ai danni della popolazione, a suo dire “fino allora risparmiata dall’influenza”.
Il direttore investì della cosa il commissario prefettizio Stagni. Questi biasimò immediatamente Scatolari, affermando che il ricovero dei prigionieri stava producendo “vive lagnanze nella cittadinanza”, e lo invitò a sospendere il loro invio all’ospedale. Intanto, però, i prigionieri malati giunsero in città in condizioni disumane (“prima a piedi e poi con un carro ordinario”) e dovettero attendere stremati una sistemazione all’interno. Uno di essi poi spirò.
La scena non passò inosservata. “La Rivendicazione” riferì di quattro prigionieri di guerra e di un soldato italiano in attesa per due ore sulle scale dell’ospedale: “il loro aspetto era macilento e mostravano sofferenza”. Il periodico lamentò che il ricovero non fosse stato immediato e che ai malati fossero mancati premura e affetto: “sono giovani e padri di famiglia; bisogna salvare ogni vita possibile di fronte alla morte in agguato”. E, temendo un intervento censorio per quella critica, soggiunse: “Il censore dinanzi a quella parola è pregato di non far uso della matita e di meditare”.
Il 1° ottobre Stagni comunicò al prefetto che l’influenza aveva colpito 17 prigionieri di Aboca e 2 soldati di scorta. Il 5 ottobre la notizia fu ben più drammatica: il morbo stava cominciando a mietere vittime. Stagni ribadì la sua contrarietà al ricovero in ospedale dei prigionieri e dette voce a severe critiche riferitegli sull’operato di Scatolari: le sue visite si limitavano “a una pura formalità compiuta nel luogo più comodo della lavorazione”; aveva sottovalutato e non riconosciuto la malattia tra i prigionieri; non li aveva “dispensati dal pasto ordinario costituito di aringhe, patate, cavoli ecc.”; e infine, nelle baracche non si osservavano le opportune norme di igiene. Nel contempo Stagni ammise che i due soli medici condotti in servizio non potevano fronteggiare la situazione di emergenza nel territorio comunale e richiese personale militare per l’assistenza sanitaria dei prigionieri, anche perché il medico provinciale “si disinteressava” del contagio da cui erano colpiti.
Le autorità militari riconobbero la fondatezza della richiesta e prontamente inviarono ad Aboca un ufficiale medico. Ma l’epidemia era ormai inarrestabile. Ne fu testimone don Parisio Ciampelli, inviato dal vescovo Ghezzi per l’assistenza spirituale. Gli riferì il 10 ottobre: “Il 6 del corr. morirono altri tre prigionieri, e tutti dopo avere ricevuta l’assoluzione. L’8 furono concentrati tutti gli ammalati nella baracca di Cerreto. Ieri ne morirono due, da me assistiti fino all’ultimo, dando segni di pietà e di compunzione. Morì pure un altro alla baracca di Ca’ del Becco. Ne rimangono ancora molti in istato gravissimo, avendo una fiera polmonite doppia. È stato migliorato tutto, e adesso sono trattati umanamente. Il capitano medico che ha fatte prendere tutte le migliori disposizioni, è un vero gentiluomo e buon cattolico. Il giorno, tanto il P. Romualdo che io, stiamo alla detta baracca, e la notte ci stiamo una volta uno e una volta l’altro. Sarebbe una grazia se il tempo si mantenesse buono. Il capitano vuole che mettiamo l’uniforme militare, appunto per essere più spediti per queste vie da capre […]”. A fine mese, mentre continuavano a verificarsi dei decessi, don Parisio riferì che i prigionieri ammalati nella baracca di Ca’ d’Ulivo erano una cinquantina, in quella di Ca’ del Becco più di 70.
Il drammatico conteggio ufficiale dei morti tra i prigionieri di Aboca ce lo danno i registri dello stato civile del comune di Sansepolcro. Tra il 29 settembre e il 19 ottobre 1918 ne morirono 22: di essi, 15 erano austriaci, 6 ungheresi e uno moravo. Il periodo di crisi più acuta fu tra il 4 e il 12 ottobre, fatale a 13 malati.
È invece scarsa la documentazione sull’epidemia tra la popolazione civile di Sansepolcro. A causa dell’influenza dovette chiudere l’unico cinematografo in attività, in via XX Settembre, e si vietò la tradizionale commemorazione dei defunti del 2 novembre.