L’attivismo dei patrioti nella limitrofa Toscana rappresentava una costante spina nel fianco del regime pontificio. Proprio in Toscana si erano rifugiati in massa gli insorti perugini dopo il 20 giugno 1859. A Cortona, aveva un ruolo di rilievo nel coordinare l’organizzazione clandestina Giuseppe Danzetta. Prese a inviare indicazioni operative, documenti e stampe provenienti dal governo italiano a patrioti di fiducia, che poi li diffondevano attraverso una rete di cospiratori. Ciascuna di esse era una “trafila”. Facendo capo al comitato perugino, una trafila raggiungeva Foligno, Spoleto, Terni e Rieti; una seconda Città della Pieve, Orvieto, Viterbo e Roma; una terza, passando per Umbertide, manteneva il legame con Gubbio, le Marche e gli Abruzzi. Avrebbe scritto Danzetta: “Si deve al coraggio, alla fede, all’abnegazione di molti contrabbandieri se le carte, gli stampati ed altro giungessero al loro recapito con sicurezza e con grave loro rischio”. Danzetta non parla di “trafile” che toccassero Città di Castello: ma sappiamo – e ne avremo ulteriore conferma – che i contatti tra i patrioti tifernati e la Toscana avvenivano attraverso Monterchi e Sansepolcro.
Soprattutto Sansepolcro si ergeva a sicuro punto di riferimento per i patrioti altotiberini sin dalla caduta del granduca Leopoldo II. Il 27 aprile, all’indomani della dichiarazione di guerra dell’Austria al Piemonte, folle di cittadini scesero in piazza nelle principali città toscane. Sentendo di avere la situazione in pugno, gli insorti fiorentini chiesero a Leopoldo II di abdicare; la sera di quello stesso giorno il granduca fuggì da Firenze. Le redini dello Stato furono prese da un governo provvisorio, che offrì la piena sovranità a re Vittorio Emanuele II. Nell’agosto 1859 l’Assemblea Toscana sancì la fine della dinastia lorenese e si pronunciò per l’unione al regno del Piemonte.
Era dunque una Sansepolcro ormai emancipata dal regime granducale quella che dava rifugio e possibilità di libero movimento ai patrioti tifernati. E fu la città altotiberina toscana a svolgere un ruolo di rilievo nella raccolta dei fondi per il “milione di fucili”. L’aveva promossa Giuseppe Garibaldi nel dicembre 1859. Progettòa la formazione di un corpo di volontari per invadere Marche e Umbria e puntare verso Roma lanciò il proclama agli italiani per la sottoscrizione di un fondo per l’acquisto di un milione di fucili: “Se con un milione di fucili gli Italiani, in faccia allo straniero, non fossero capaci di armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare dell’umanità! L’Italia si armi, e sarà libera!”.
Una preoccupata lettera al ministero dell’Interno del delegato apostolico di Perugia rivelava, alla fine di febbraio del 1860, quanto seguito avesse tra la popolazione il progetto di Garibaldi e come Sansepolcro fosse il punto di riferimento della sottoscrizione ben oltre la valle: “Al confine, il Governo toscano, i padroni dei fondi e, mi rincresce di dirlo, anche non pochi del clero, eccitano, spingendo i contadini di buona voglia o per forza alle oblazioni per il progetto Garibaldi del milione di fucili. Quindi compagnie di questi contadini, capitanati sempre da qualche Magistrato o da qualche altra persona influente, entrano nei luoghi abitati schiamazzando e facendo echeggiare di Evviva l’Italia ecc. i paesi e le campagne. Queste grida sono spesso miste di proposizioni contro il Governo dei preti, contro la Religione. Il più pericoloso per noi, perché più a contatto e più esaltato, è Borgo San Sepolcro, il cui venerando Vescovo, che si oppone quanto può, fa temere la sua sicurezza personale. È in quella città ove sono andate e portate le offerte pel milione dei fucili dalli paesi di questa Provincia e limitrofi luoghi, i cui indirizzi si sono letti ieri nel giornale la Nazione num. 55, e credo di sapere, che in un convegno pubblico di detta città, come veniva a leggersi gli indirizzi, si gridava: Viva Perugia, Todi, Terni, Narni, ecc.”.
Venuti a conoscenza che a Sansepolcro si sarebbe tenuta una grande festa in teatro per raccogliere i fondi per il “milione di fucili”, giunsero rigorose disposizioni a Città di Castello di negare il passaporto a chi intendeva entrare in Toscana quel giorno e di arrestare, al ritorno, quanti avevano comunque trovato modo di parteciparvi. I tifernati non si scoraggiarono e inviarono un contributo pari al prezzo di 191 biglietti, accompagnato da una lettera che inneggiava all’Unità italiana. Così fecero anche a Citerna e San Giustino, acquistando, rispettivamente, 100 e 88 biglietti. A dimostrazione dell’ostilità popolare al potere pontificio, quando il governatore di Città di Castello indisse una pubblica tombola, scattò il boicottaggio dei tifernati: vendette appena 26 cartelle e “non si trovò in tutto il paese un solo suonatore per una festa da ballo ch’ei voleva organizzare”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).