Angelo Rebiscini nel 2014.
Ritratto giovanile di Angelo Rebiscini.
Cleto Rebiscini

Rebiscini Angelo. Con gli slavi del battaglione “Stalingrado”

All’epoca della seconda guerra mondiale la famiglia di Abramo Rebiscini lavorava a mezzadria un podere sull’Appennino marchigiano, vicino al territorio tifernate. Lo aiutavano sui campi i figli Angelo, classe 1924, e Cleto, di tre anni più giovane: “Era un buon podere, con un buon padrone” – ricorda Angelo Rebiscini – “Faceva 76 quintali di grano”. Il fratello Cleto dava un contributo considerevole: “Aveva una forza straordinaria. Con un quintale ci scherzava. Riusciva a stare disteso appoggiandosi con la nuca su una seggiola e con i piedi su di un’altra; e reggeva pure il babbo che gli montava con tutto il suo peso sopra la pancia”.
Nel 1943 Angelo deve partire per il militare. L’8 settembre si trova a Roma, in un reparto del Genio. Appena le forze armate italiane si sfasciano, scappa con altri due commilitoni: “Si camminava per i boschi e per le stradacce di campagna, specie di notte, per cercare di risalire verso l’Umbria. Ci siamo anche persi. Alla fine, a suon di camminare, sono arrivato a Umbertide. Poi in treno fino a Trestina e ancora a piedi, passando per il Perrubbio, fino a casa”.
Quando il fascismo si riorganizzò nella Repubblica Sociale Italiana, per ricostituire il suo esercito chiamò a raccolta anche i giovani di quei monti. Ma Angelo non ne voleva più sapere della guerra: “Mi venivano a cercare a casa i carabinieri, e qualche volta anche i fascisti. Di giorno mi nascondevo nel bosco vicino al podere; di notte lavoravo al lume di luna nei nostri campi. Facevo di tutto”.
Tra l’inverno e la primavera del 1943-1944 le alture dell’Appennino umbro-marchigiano presero a popolarsi di giovani che si davano alla macchia per sfuggire all’arruolamento. Oltre a questi renitenti e disertori italiani, vi trovarono rifugio anche molti slavi deportati dalla ex-Jugoslavia e internati dal fascismo in campi di prigionia nel nostro Paese. Uno di essi era a Renicci, presso Anghiari.
Parecchi di questi slavi costituirono bande armate per combattere contro il nazi-fascismo. Angelo Rebiscini si trovò a convivere con una di queste bande: “Vicino a noi ci stavano i partigiani montenegrini. Erano scappati dai campi di concentramento. Erano garbati, avevano un buon rapporto con la gente del posto, ci trattavano con rispetto. Noi contadini si erano presi nel mezzo: da una parte i fascisti, da quell’altra i partigiani. Ma il fascismo non erano certo ben visto su da noi. Così, per quello che si poteva, gli si dava da mangiare a questi uomini alla macchia. Ci volevano bene”. Un po’ meno bene gli volevano i proprietari terrieri, perché quando i partigiani non avevano di che mangiare o vestirsi, lo andavano a requisire ai benestanti. E, ammette Angelo, “chi subiva queste requisizioni non poteva certo reagire…”
La banda di montenegrini si chiamava “Stalingrado”. La comandavano “Baffo” e Radomir, due personaggi che Angelo ha potuto conoscere bene: “’Baffo’ era un tipo tarchiato, un po’ prepotente. L’altro, Radomir, lo ricordo più gioviale, cordiale. Parlava un po’ d’italiano e sapeva usare il mitragliatore benissimo”.
Il destino di Angelo si intrecciò ancor di più con gli slavi quando, nella seconda settimana di maggio 1944, tedeschi e fascisti strinsero in una morsa tutto l’Appennino tra Pietralunga, Apecchio e Città di Castello per annientare le bande partigiane che vi scorrazzavano. Una parte della Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” di Pietralunga, compresi i tifernati della “Montebello”, scappò verso Bocca Serriola e fece causa comune con la “Stalingrado”. Nella zona di Citerna di Scalocchio i partigiani combatterono con successo contro i tedeschi e sfuggirono all’accerchiamento.
Angelo Rebiscini era nei paraggi: “Durante quella battaglia io stavo nascosto nella macchia. Poi i montenegrini sono passati dalle mie parti, mi hanno visto e mi hanno invitato a partire con loro. M’hanno convinto. M’hanno dato un moschetto e ci siamo incamminati verso l’Alpe della Luna. Siamo rimasti nascosti presso Montelabreve fino a giugno, in posizione difensiva”. C’era qualche altro italiano in quella banda: “Uno di Città di Castello, Armando Perugini, e due apecchiesi, Settimio Ferrarini e un certo Tontini”.
Fu in quel periodo che Angelo ottenne da Radomir di poter tornare a casa per tranquillizzare la famiglia: “Non mi vedevano da qualche settimana, non sapevano che fine avevo fatto, se ero vivo o morto”. Giunto a casa, trova una situazione drammatica: “Appena arrivo, vengo a sapere dell’uccisione di mio fratello Cleto. Dopo la mia partenza, lui era rimasto a casa per governare le bestie. I tedeschi lo avevano preso insieme a un amico, Zeno Palleri, li avevano portati al comando e li avevano costretti a trasportare casse di munizioni ad Apecchio. Poi li avevano fucilati sulla riva di un torrente insieme a un partigiano di 18 anni, Giorgio Giornelli,  catturato da queste parti”.
La guerra continuava. E continuava l’impegno dei partigiani per disturbare le retrovie tedesche e così agevolare l’avanzata degli Alleati. Così Angelo tornò da quella che ormai considerava la sua banda, sull’Alpe della Luna: “Lassù ho assistito al lancio di rifornimenti inviati dagli Alleati. Venne un aereo di notte e sganciò una ventina di paracaduti con armi e generi alimentari. C’era cibo in scatola. Lo vedevo per la prima volta. Era buono, si mangiava volentieri. Di fame ne avevamo tanta. Qualche volta dalla debolezza faceva fatica portare anche l’arma addosso. I paracaduti caddero tra l’Alpe della Luna e Montelabreve. Qualcosa cadde più lontano, verso Badia Tedalda; due casse le recuperarono dei montenegrini, molto coraggiosi. Una era finita sopra un albero. Gli slavi fino ad allora non erano armati gran ché; con quel rifornimento vennero armi più moderne”.
All’inizio di giugno, un altro terribile rischio. Tedeschi e fascisti circondarono quei monti e li setacciarono con un altro stato grande rastrellamento: “Stavo montando la guardia notturna sul punto più elevato dell’Alpe della Luna con un altro italiano e due montenegrini, quando, prima di mezzanotte, vediamo venire su una barca di gente. Scendiamo e diamo l’allarme. Riusciamo subito a trovare delle vie di fuga. A me hanno ordinato di prendere tre cavalli carichi di roba da mangiare e di andare in direzione di Sant’Angelo in Vado”. Una fuga in condizioni durissime: “Pioveva. Siamo passati per un macchione terribile. Si era tutti fradici, con i vestiti strappati. Sul crinale c’erano le pattuglie tedesche. Siamo riusciti a passare per un sentiero strettissimo e a raggiungere Parchiule. Poi da Parchiule siamo andati verso Mercatello”.
Quel rastrellamento provocò diversi morti, soprattutto tra i partigiani di Sansepolcro, che avevano il loro rifugio sull’Alpe della Luna. Lo “Stalingrado” superò indenne la prova e, esauritasi la furia tedesca, ripartì in direzione di Monte Nerone. La guerra continuò a mostrare a Rebiscini i suoi lati più spietati: “Finito il rastrellamento siamo tornati verso Cai Martinelli, sulla Serra di Burano. Lassù ho assistito a una scena che mi ha lasciato parecchio turbamento. Il capo ci disse di fucilare un italiano, che faceva la spia. Io non me la sentii, nemmeno gli altri italiani. Allora si fece avanti uno slavo, Luca. Ricordo che quell’uomo, magro, era seduto, slegato, e guardava in direzione di Monte Nerone. Luca gli si è avvicinato e gli ha sparato alle spalle una raffica di mitra. Un colpo l’ha colpito anche al cranio, sfondandogli la fronte”.
Poi giunsero a Rebiscini brutte notizie da casa: “Il mio babbo, dalla passione per la morte di Cleto, s’era preso la pleurite. E pensare che aveva solo 43 anni ed era robustissimo. Ma non mangiava più. Lo avevano ricoverato al sanatorio di Iesi. Nel podere era rimasta la sua seconda moglie – mia madre era morta qualche anno prima – con tre figli giovanissimi. E io partigiano… Non potevano mandare avanti il podere”. Allora Angelo chiese di poter tornare a casa; ma fu dura con i montenegrini, partigiani severi e militari rigorosi: “’Baffo’ era irremovibile, non mi voleva rimandare. Poi intervenne Radomir, che lo convinse. Così potei tornare a casa e lavorare al podere. Ma solo di notte, perché di giorno dovevo stare nascosto”.
La guerra di Angelo Rebiscini finì lì. A luglio, sui monti tra Apecchio, Scalocchio e Città di Castello si combatté meno accanitamente che altrove e la sua famiglia non subì ulteriori prove durante il passaggio del fronte. Una famiglia che aveva avuto un’altra vittima durante la repressione anti-partigiana di maggio: “Il Giuseppe Bernardini che i tedeschi fucilarono a Montecastelli era un mio lontano cugino. Era un carabiniere e aveva disertato”. Catturato a Pian di Molino, presso Apecchio, il ventiquattrenne Bernardini fu portato verso l’Alta Valle del Tevere da un reparto tedesco, che l’uccise a Montecastelli. Era il 6 maggio 1944.

P.S. Rebiscini è deceduto nel 2016 a 92 anni di età.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 23 ottobre 2014 epubblicata ne “L’altrapagina”, novembre 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.