Reati di natura annonaria durante la Grande Guerra

Nel settembre 1917 la Corte di Appello di Perugia prese in esame il caso del colono di 60 anni di Pietralunga Domenico Fonti. Era stato condannato dal pretore di Umbertide il 23 giugno di quell’anno a L. 320 di multa per la vendita di quattro quintali di grano a prezzo superiore al calmiere. La Corte non ritenne validi i motivi dell’appello e confermò la colpevolezza del Fonti; però gli concesse i benefici della sospensione condizionale della pena [1].
 
Dinanzi alla Corte di Appello di Perugia, il 6 dicembre 1917 si presentarono sei imputati di Arezzo già processati dalla pretura di Città di Castello il 10 ottobre e assolti dall’accusa di aver fatto incetta di “grandi quantità di uova e pollame, con aumento conseguente del prezzo dei generi”. Nonostante l’appello prodotto dal procuratore del re, gli aretini vennero di nuovo assolti. Secondo la Corte il fatto non costituiva reato perché gli imputati non avevano speculato sul prezzo, ma avevano accaparrato i generi per venderli in grandi centri che ne erano egualmente sprovvisti; quindi non si trattava di “sottrazione al consumo”. La Corte arguì: “la figura dell’accaparratore punibile è quella di chi, spinto da avidità di immoderato guadagno, e dalla speranza di lucri futuri, raccoglie ed immagazzina le merci, speculando sui bisogni delle popolazioni, e disposto a soddisfarli solo quando i prezzi saranno cresciuti fino al limite desiderato”.
La denuncia degli accaparratori aretini aveva avuto vasta eco nei periodici locali, che si erano augurati una condanna esemplare per scoraggiare il malcostume del mercato nero. Erano stati colti in fragrante con 971 capi di pollo, 286 piccioni, 30 oche, 12 conigli e migliaia di uova [2].
Fu invece confermata in appello, nel maggio 1918, la condanna della macellaia di San Giustino Romana Bebi, diciannovenne. Era stata denunciata per aver tentato di vendere lardo a prezzo superiore al calmiere. Il pretore di Città di Castello l’aveva condannata a tre giorni di detenzione, a L. 50 di multa e “alla pena accessoria di L. 30, triplo della differenza tra il prezzo del calmiere e quello da lei richiesto”. La Bebi, figlia di Giacomo, proprietario della macelleria, era stata denunciata da due contadini [3].
Nel luglio 1918 la Corte di Appello perugina confermò un’altra condanna pronunciata dal pretore tifernate per infrazione al calmiere. A scoprire il traffico illecito era stato il brigadiere della Guardia di Finanza Gaetano Feola. Fingendosi negoziante, aveva avvicinato un certo Luigi Rossi di Città di Castello, che stava trasportando su un carro cinque balle di granturco, per tentarne l’acquisto. Le indagini permisero di scoprire che Rossi aveva acquistato il granturco a prezzi diversi da quelli calmierati, esportandolo illegalmente dalla parte toscana della valle (Gricignano) a quella umbra. Insieme a Rossi furono condannati l’agente di campagna di 49 anni di Sansepolcro Angiolo Gambassi e il mugnaio di 31 anni di Citerna Olivo Comanducci. A Gambassi, che aveva venduto 829 chili di granturco a prezzo superiore a quello fissato dalle autorità, furono inflitti cinque giorni di detenzione, L. 600 di multa e L. 438,44 di pena pecuniaria; a Comanducci, reo di una vendita illecita di un quintale di granturco, tre giorni di detenzione, L. 100 di multa e L. 38,15 di pena pecuniaria [4].
La vendita di una modesta partita di fagioli a prezzi superiori al calmiere costò sei giorni di detenzione, L. 15 di multa e L. 1,6 di pena pecuniaria alla negoziante di 62 anni Emilia Topi di Città di Castello. La condanna pronunciata dal pretore tifernate il 24 giugno 1918 venne confermata in appello il 30 ottobre di quell’anno [5].

Processi per furto
Alcuni processi per furto, non tutti conclusi con una condanna, offrono l’eloquente spaccato di una società dove era la povertà stessa a indurre la tentazione di rubare. Un bracciante tifernate confessò il furto di legna e fascine accatastate in un bosco. Nonostante il valore modesto della refurtiva e altre attenuanti, subì la condanna a 25 giorni di reclusione.
Un carbonaio di Pietralunga fu denunciato dal proprietario della ditta di Montone per la quale lavorava per aver sottratto quattro balle di carbone; in realtà risultò che si trattava di tizzi, o di carbone di scarto non vendibile, che l’operaio in tutta buona fede trasportò a casa, come facevano altri suoi colleghi, in pieno giorno su due somari. Fu assolto.
Non seppero invece dimostrare la propria innocenza, o buone fede, né il contadino di Lugnano che sottrasse un ingente quantitativo di legna dal deposito del fratello, mentre questi era ricoverato al pellagrosario di Città di Castello; né il contadino di Citerna che tentò di rubare una pecora; né il gruppo di tifernati imputato di furto continuato e ricettazione di rame, zinco, bronzo e ferro sottratti alla Ferrovia Arezzo Fossato e di fili di rame di proprietà della Società Elettrica Tifernate; né il malaccorto e pasticcione contadino di Pietralunga che rubò dei covoni di grano al padrone e se li portò a casa lasciando alle spalle una scia di spighe di grano: fu facile per i carabinieri risalire all’autore del furto.
Due giovani tifernati finirono in tribunale per essersi appropriati illecitamente di un po’ di ciliegie. Assolti dal pretore, vennero poi condannati in appello a tre giorni di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Peculiare anche il caso di un operaio di Città di Castello addetto alla esumazione dei cadaveri nei cimiteri rurali; accusato del furto di un centinaio di croci di ferro che rivendeva come ferro vecchio, poté dimostrare la sua buona fede.
Si poteva essere denunciati per poco. Il calzolaio di 68 anni Antonio Pieroni, di Città di Castello, raccolse e portò a casa un piccione caduto dalla torre del comune sulla piazza; era un “piccione di cova”, poco sviluppato e “inetto al volo”, quindi destinato a morte sicura. Lo denunciarono per furto di un animale di proprietà comunale. Condannato in prima istanza dal pretore a tre giorni di detenzione, fu poi assolto dai più ragionevoli giudici della Corte di Appello di Perugia [6].
 

 


[1] Ivi, Sentenza della Corte di Appello di Perugia, 11 settembre 1917
[2] Ivi, Sentenza della Corte di Appello di Perugia, 6 dicembre 1917. Cfr. A. Tacchini, L’Alta Valle del Tevere e la Grande Guerra, Città di Castello 2008, p. 33.
[3] Ivi, Sentenza della Corte di Appello di Perugia, 22 maggio 1918.
[4] Ivi, Sentenza della Corte di Appello di Perugia, 20 luglio 1918
[5] Ivi, Sentenza della Corte di Appello di Perugia, 30 ottobre 1918
[6]Ivi, Sentenze del Tribunale di Perugia in data 26 ottobre 1915, 3 maggio 1916, 8 novembre 1916,  18 luglio 1917, 24 novembre 1917, 23 novembre 1918; sentenze della Corte di Appello di Perugia, 10 settembre 1915, 27 luglio 1918, 28 settembre 1918.