La durissima repressione nazi-fascista del movimento partigiano altotiberino non raggiunse l’obbiettivo di scompaginarlo e di renderlo inoffensivo. Nessuna formazione fu annientata; quelle che si sbandarono durante i rastrellamenti in genere seppero riorganizzarsi e tornarono a combattere. Inoltre i vuoti lasciati dai caduti e dai pochi che si scoraggiarono e abbandonarono la lotta vennero colmati da tanti altri giovani che decisero di andare alla macchia dopo la scadenza del “bando Mussolini” e per lo sfascio della Guardia Nazionale Repubblicana.
Rappresaglie ed esecuzioni sommarie non recisero i legami tra popolazione rurale e partigiani. Di certo il terrore sparso nelle campagne in certi momenti li allentò, inducendo i contadini a maggiore prudenza e circospezione. Ma nel complesso la spietata violenza nazi-fascista accentuò l’avversione nei confronti della Germania e della Repubblica Sociale Italiana. Il comandante in capo del XIV corpo d’armata corazzato, gen. Rudolph Von Senger und Etterlin, avrebbe poi ammesso nelle sue memorie che le rappresaglie accrebbero nella gente l’odio verso i tedeschi e la simpatia verso i partigiani; con il risultato che i tedeschi, considerando la popolazione nel suo insieme complice dei partigiani, fecero ricorso a misure ancor più severe. Tale spirale di incomprensione e violenza, paventata dagli strateghi più accorti della repressione, rese incolmabile il solco tra la grande maggioranza degli italiani e il nazi-fascismo, sancendone la sconfitta politica.
Le formazioni partigiane altotiberine nel loro complesso erano consapevoli del rischio di rappresaglia che incombeva sui civili in caso di uccisione o ferimento di tedeschi. Non mancarono raccomandazioni ad agire con cautela anche da parte dei comandanti. Il console americano Walter William Orebaugh, a lungo alla macchia con la Brigata “San Faustino”, scrisse nelle sue memorie: “Tutti concordammo che, nel limite del possibile, avremmo evitato di mettere a rischio la vita e le proprietà dei civili”. Il partigiano montonese della stessa formazione, Domenico Bruschi, ricorda che erano giunte disposizioni assai chiare in merito: “L’ho sentito io stesso Mario Bonfigli [uno dei comandanti della formazione] affermare che non bisognava ammazzare i tedeschi”. Analoghe indicazioni dette la “Pio Borri”, come sostiene Piero Signorelli: “Noi avevamo l’ordine tassativo dal comando partigiano di provocare meno morti possibile; e si doveva cancellare ogni traccia nel caso non si riusciva ad evitare un’uccisione. Si sapeva che le conseguenze di ogni morto tedesco sarebbero ricadute sulla popolazione, che poi era la nostra gente”. Condizionarono non poco i partigiani il fatto che ad essere messa a repentaglio era generalmente la vita degli stessi parenti e compaesani e le loro pressanti esortazioni ad agire con prudenza.
Ma in un movimento così composito e frammentato, il rischio di azioni avventate era costante; sia per la spiccata autonomia di alcune bande, sia per la facilità con cui potevano infiltrarsi personaggi spregiudicati, sia per l’inesperienza di molti giovani alla macchia, sia per l’accentuata bellicosità di combattenti di altri territori, in particolar modo ex prigionieri slavi, senza legami affettivi con la popolazione della zona dove operavano. Giulio Pierangeli sottolineò il rischio che comportavano certi agguati dei partigiani: “Sporadiche azioni di ribelli, che se la pigliano con qualche soldato tedesco isolato, provocano rappresaglie feroci, con l’incendio di case, con fucilazioni sommarie. I tedeschi non tollerano disobbedienze: sono pochi, e debbono garantirsi con il terrore; credono che questa sia la legge di guerra, necessariamente spietata”.
Là dove le rappresaglie tedesche colpirono con indiscriminata violenza non poté non manifestarsi una corrente d’opinione che addossò ai partigiani la responsabilità per quanto avvenuto. Così come si devono ai sacerdoti gran parte delle cronache di quegli eventi, furono soprattutto alcuni di essi a dar voce a queste critiche. Don Tersilio Rossi, di Caprese Michelangelo, le ribadisce a più riprese nelle sue memorie. Don Gerico Babini accusò le bande di aver fatto “molto fumo e niente arrosto” e di essere state “causa di rappresaglie”. Concetto sottolineato anche da don Luigi Mengozzi, che arrivò al punto di giudicare i partigiani “maggiormente responsabili perché a conoscenza di tali rappresaglie” e di non averle mai ostacolate. Mengozzi definì “gesta inutili” quelle della Resistenza, sposando in pieno la tesi che sarebbe stata più opportuna una strategia attendista: “Furono molto più utili alla causa italiana coloro che rimasero nascosti, senza combattere i tedeschi. Per la guerra c’erano gli alleati che non avevano bisogno dei partigiani…”. Considerazioni talvolta condizionate da un pregiudizio negativo nei confronti di un movimento che aveva una forte componente di ispirazione marxista, inaccettabile agli occhi degli esponenti più conservatori del clero. Lo stesso studioso cattolico Giancarlo Pellegrini definisce tali argomentazioni un “giudizio insufficiente, superficiale e di parte che nel suo qualunquismo raccoglieva l’opinione pura di gente comune preoccupata del proprio particolare”.
Un esponente di rilievo della Resistenza toscana, l’azionista Antonio Curina, affrontò schiettamente la questione, sottolineando le ragioni per le quali il ricatto delle rappresaglie non poteva impedire la lotta armata: “Si dà ai partigiani la colpa dei massacri e delle feroci rappresaglie nazifasciste. […] Secondo questi schifiltosi, il popolo italiano avrebbe dovuto disinteressarsi della guerra. Così mentre inglesi, americani, canadesi, indiani, indocinesi, sudafricani ecc. ecc. combattevano in Italia contro i nazi-fascisti ed i fascisti per liberare il Mondo, e quindi anche l’Italia, dagli uni e dagli altri, gli italiani dovevano fare la parte degli osservatori, magari a distanza, dovevano cioè stare rintanati nei rifugi e nelle caverne, infischiandosi altamente del decoro, della dignità, della libertà, delle deleterie conseguenze storiche di questa supina acquiescenza al male […]”.
Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.