La mancanza di una terapia in grado di contrastare il morbo costrinse a porre l’accento sulla profilassi. Due ordinanze del Comune di San Giustino esemplificano le indicazione profilattiche comunicate alla popolazione all’inizio dell’epidemia di “febbre spagnola”. Si raccomandava innanzitutto il rispetto dell’igiene (“la propagazione non si verificherà se la pulizia sarà osservata”) e si prescrivevano scrupolose norme di carattere alimentare: “1- Evitare di ingerire troppo cibo ed acqua, e questa possibilmente corretta con poco vino ed in mancanza con aceto. 2- Tutti gli erbaggi dovranno essere cotti, e se si volesse fare uso di insalata questa dopo essere stata accuratamente lavata [dovrà] essere condita con aceto almeno 15 minuti prima di mangiare. 3- La frutta di qualsiasi genere dovrà essere immersa in soluzione di acido cloridrico per la durata di 20 minuti; non abusare di fichi e di cocomeri”.
Quando, il 2 ottobre 1918, il commissario prefettizio di Sansepolcro fece affiggere un manifesto conle norme e i comportamenti da seguire per la profilassi dell’influenza, che chiamò “febbre estiva o febbre spagnola”, il periodico socialista altotiberino “La Rivendicazione”, pur riconoscendone il buon senso, si fece portavoce della rabbia del popolo, prostrato da quattro anni di ristrettezze a causa della guerra: “Ci dicono che bisogna mangiar bene, che bisogna prender cibi buoni per stare in salute; ma intanto nessuno ti dà niente e alle botteghe non si trova neanche un condimento. È anche vergogna! Come si deve fare a star bene? La carne non c’è, o non ce la danno; l’olio non si trova; il lardo e il formaggio è da un pezzo che son finiti; il burro non ce lo fanno vedere; le uova non le portano al mercato le contadine o costano un occhio. Come è possibile dunque mangiar bene?”
La “spagnola” provocò ulteriore tensione tra i cittadini, costretti a sopportare lunghe file per poter acquistare un po’ della carne contingentata e a vigilare contro gli immancabili episodi di favoritismo. Un’alimentazione più sostanziosa, specie con carne, poteva rinvigorire i tanti malati: “un brodo, un cordiale, sono il tutto per gli infermi, per i convalescenti”, scrisse “La Rivendicazione”. A Città di Castello venne a mancare la carne proprio nel periodo più acuto dell’epidemia. Poi fu la volta del latte. Il periodico riferì scene pietose di tante povere donne, con degli ammalati in casa, “rincorrere le lattivendole e affannosamente supplicarle per averne due o tre soldi”.
L’altro periodico tifernate “Il Dovere” consigliò di proteggere con la massima attenzione le vie respiratorie, di evitare ambienti dall’aria viziata e i locali pubblici affollati, di fare attenzione alle punture degli insetti, di praticare la più minuziosa pulizia del corpo e dell’abitazione; raccomandò ai malati di non diffondere il morbo con le secrezioni del naso e della gola, di ricorrere sempre al medico e di restare a riposo fino alla completa guarigione, dal momento che la convalescenza era lunga e proprio le ricadute potevano risultare fatali. Il settimanale suggerì che l’ammalato, se colpito dai sintomi, avrebbe dovuto mettersi a letto, facendo applicazioni calde contro i dolori, e assumendo “un infuso caldo di tiglio e di camomilla e dosi non elevate di aspirina e salicilato di soda da mezzo a un grammo”; per alimentazione indicò sostanze liquide, latte, qualche tuorlo d’uovo, piccole quantità di marsala e di caffè.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.