Rodolfo Piccotti all’epoca della guerra.
Piccotti durante la testimonianza.

Piccotti Rodolfo. Ritirata dalla Russia: freddo, fame e morte in faccia

Rodolfo Piccotti è venuto al mondo il 23 gennaio 1917. Ben 101 anni fa. Del 1917 si è molto parlato per gli avvenimenti che lo sconvolsero. Rodolfo aveva 3 mesi di vita quando il terremoto distrusse Citerna e Monterchi, 9 mesi all’epoca di Caporetto, qualche giorno in più quando morì Leopoldo Franchetti.
Avrebbe tante cose da raccontare quest’uomo, che nacque in una famiglia di muratori, fu egli stesso muratore e passò poi per altri mestieri fino a diventare custode dello stabilimento tipografico “Lapi”. Ma ci sono alcuni mesi della sua vita dai risvolti talmente drammatici da meritare un’attenzione particolare. Difatti Rodolfo è uno dei sopravvissuti della tragica ritirata dalla Russia delle truppe italiane, nella seconda guerra mondiale.
In quella spedizione mandata allo sbaraglio dal regime fascista, Rodolfo era un “lanciafiammista”, così si denominava la sua mansione militare:
“Facevo parte della Compagnia Chimica, al cui interno c’era la Compagnia Lanciafiamme. Ero caporal maggiore, poi fui promosso sergente. Comandavo una squadra, composta di 13-14 soldati, con 3 lanciafiamme”.
Quella squadra si distinse nell’espugnare un fortino:
“C’erano cinque soldati russi, su una collina, in campagna. Ci si avvicinò strisciando per terra, con quel freddo… Tenevamo i lanciafiamme sulle spalle Arrivati a 15-20 metri dalla postazione, li abbiamo azionati. Quando hanno visto quelle fiaccolate, i russi sono rimasti sorpresi, hanno lasciato baracca e burattini e si sono dati alle gambe”.
Piccotti era un tipo tosto, coraggioso:
“Prima delle missioni ci chiedevano chi voleva andare volontario. Io mi offrivo. Ero giovane, non avevo più i genitori, ero come un cane randagio. Non avevo paura di niente. E poi ci si era abituati vedere la morte in faccia”.
I ricordi, per quanto frammentari, compongono un quadro di grandi stenti, che le espressioni dialettali rendono più vivido: “El frèddo, dio bono… La fème ci vultichèva, nn se ne potéa piò”. E sulla mancanza di rifornimenti: “Quando arivèono i rifornimenti, era a la solita italièna: prima grattèono i comandanti, pu’ gratta quello, gratta quel’altro, a la truppa arivèa poca roba”. Inoltre il cibarsi della carne dei cavalli dei cosacchi rimasti uccisi negli scontri a fuoco: “Però io aspettèo prima d’andè a prende la carne dei cavàli. Ci andèo a l’ultimo, perché c’erono dei russi che faceon finta d’ese morti per sparàci adòso. Quando ci gìo io, ci armanìono piò che mèi le teste de cavalo. Me la carchèo una sul groppone e la portèo via. Pu taglièo le guance co la baionètta. Arcapezzèo qualcosa”.
Freddo, maltempo, disagi potevano indurre ad atti di autolesionismo, per farla finita con la guerra ed essere rimandati, feriti, a casa. Anche Piccotti ammette di averci pensato, quando ancora avanzavano verso la Russia, con i mezzi che si impantanavano e che bisognava spingere a forza di braccia: “La disperazione era tanta. Un giorno, era nn tempàcio, piovéa, le rote dei cami [camion] slittèono, e noialtri se dovéa spinge sti cami. Ho ditto: ‘Ci metto sotto m piede’. Ma quando ho visto che la rota stèa per piè i laccioli de la scarpa, l’ho artirèto via. E ho ditto: ‘Sarà quel che Dio vole””.
Infine la terribile ritirata dalla Russia, da metà dicembre 1942: centinaia di chilometri tra la neve e il freddo, tutti a piedi, perché fu necessario lasciare alle proprie spalle i mezzi militari:
“Ci hanno dato la bussola e ci hanno detto di andare sempre a sud-est. Non s’aveva vestiti per resistere a quel freddo. Le scarpe erano tutte consumate; le si involtavano con stracci, con pezzi di stoffa. Si indossava un cappotto di tela; ci avevano inviato anche i cappotti con la pelliccia, ma alla solita italiana, quando ci arrivarono questi cappotti, la pelliccia non c’era più…”
Una ritirata al ‘si salvi chi può’:
“Il comandante ci disse di camminare di continuo, di non fermarsi mai; e se qualcuno non ce la faceva più doveva essere lasciato lì. Quelli che non potevano camminare chiedevano aiuto, ma che cosa potevi fare? L’ho sentiti dei commilitoni, che non ce la facevano più, dire ‘portatemi via con voi’. Si era tutti fratelli, ma non potevamo fare niente per loro”.
Una fuga disperata, camminando sia di giorno che di notte, riposandosi in condizioni difficili, dove capitava, in qualche capanno, sotto i teli da tenda. Una grande fatica, con lo spettro della fame e del freddo, che quando si è affamati si sente ancora di più:
“Sui campi non si trovava niente. I russi non avevano da mangiare manco per loro. Si era fortunati se si trovava qualche gatto da mangiare… Una donna russa vide il mio orologio e me lo chiese in cambio di un secchio di patate. Volevo tenerlo, ma i compagni mi supplicarono di darglielo. Il problema fu cuocerle quelle patate. S’accese un fuochino sotto l’argine di una strada. S’aveva tanta fame che le mangiammo prima di finire di cuocerle, a forza di assaggiarle per sentire se erano cotte”.
Un episodio di fame e solidarietà tra commilitoni merita di essere raccontato in dialetto:
“Era de nòte, al bujjo, dentro nna baràca. Pasa uno col camio, se ferma e chiede: ‘Che c’è qualche perugino?’ Gni rispondo: ‘Io!’ Era n certo Pieracci, de le Fabbrecce. S’era amici, da fregòti se lavorèa nsieme, se facéa l bòcia, se portèa da bé ai operèi. Ci semo abbraccièti… Me chiese: ‘È fème?’ E io: ‘Caro mio… la fème la vedo caminè, ma chi la chiàpa?’ E lu: ‘Sta zitto, che c’ho nna gallètta e nna schètola de carne de la prima guèra mondièle…’ Me diede sta scatolètta. Caro mio… Se fece nna mangièta. S’era tutti fratèli, eh? Se c’era qualcosa da mangè, se facéa m po’ per uno. Nn sucedéa che qualcun mangièa solo per sé”.
La ritirata durò fino al marzo 1943. Della compagnia di Piccotti riuscirono a tornare una quindicina, non più. Rischiò anche lui di morire in Russia. Mentre camminava, una pallottola lo colpì sull’elmetto e poi, di rimbalzo, gli si conficcò sul collo. Fortunatamente l’impatto con l’elmetto gli aveva tolto potenza:
“Ho sentito nna botta e pu’, bussa n tèra… I amici mii m’han rizzèto sò e m’han ditto: ‘Le gambe l’è bone?’ E io: ‘Sé’. ‘E alora, via, via!’ Si nn arpartìo facéo la fine de quei altri, lascièti a morì pe strèda”.
Così Piccotti ha continuato a camminare, senza poter curare la ferita, sopportando il dolore. E intanto il freddo infieriva sul corpo:
“Su quela ritirata c’hò lascièto quatordici denti. Saltèono col freddo. Se sentìa fè tun, tun… e cadéono. Subbito doppo la guèra m’han mèsso nna protesi, nna dentiera”.
Infine, fortunatamente, il ritorno in Italia, in condizioni pietose:
“Apena tornèti, ci han portèto dentro a nna baràca. C’han fato fè l bagno, ci hano sbarbèto. Quan ci s’era arpuliti, ci se guardèa e se dicéa: ‘To chi sé?’… Nn ci s’arconoscéa”.
I reduci di Russia dovettero rieducarsi a mangiare, un poco per volta. Anche a dormire: fu difficile riadattarsi alla branda dopo aver sempre dormito per terra. Il corpo di Rodolfo era segnato indelebilmente. Gli stenti provocarono danni irreversibili all’apparato digerente, tanto che dopo la guerra subì la resezione totale dello stomaco.
Il “lanciafiammista” Rodolfo Piccotti riuscì a tornare a casa nel 1945; era partito per il servizio militare sette anni prima… Il corpo piagato, ferito, non gli è valso particolari benefici. Quando gli dettero la pensione di guerra, senza sottoporlo a una visita approfondita, gli attribuirono la settima categoria. Attualmente percepisce una pensione di guerra di 263 euro al mese.
Tuttavia né per lui né per i famigliari è mai stata una questione di soldi, o di interessi materiali. Hanno invece sempre pensato che tanti sacrifici per la Patria meritassero almeno maggiori riconoscimenti morali.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 7 dicembre 2017 e pubblicata ne “L’altrapagina”, gennaio 2018. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.