L’11 luglio 1903 un avversario politico che si firmò con lo pseudonimo Reporter vergò questo brillante ritratto di Ugo Patrizi nelle colonne del settimanale progressista tifernate “L’Unione Popolare”. Per quanto l’articolista intendesse muovere critiche al marchese, che allora militava nelle file liberali monarchiche, non poté far a meno di sottolineare aspetti del carattere che suscitavano stima e rispetto:
“Nello spirito e nella parola è di una flessuosità serpentina, di una duttilità aurea, di una adattabilità mirabile, di una dolcezza lattiginosa, di una morbidezza emolliente. Se un uomo potesse raffigurarsi con una figura geometrica, egli potrebbe assomigliarsi al circolo, per l’assenza assoluta di angoli. Sua preoccupazione costante è quella di evitare i cozzi rumorosi e gli attriti stridenti; egli cerca sempre di uniformarsi agli ambienti vari e alle varie persone; se v’è dissidio nella sostanza egli quasi sempre riesce a dissimularlo colla butirrosa cortesia della forma: forse per nessun altro, come pel marchese Patrizi, la lingua italiana è la lingua del sì… Al potere vuol giungere ammaliando gli animi, non intimidendoli; vuol regnare col sorriso non col cipiglio, e cerca di disamare sempre l’ira avversaria coll’inalterata dolcezza. Un’affermazione egli ha costantemente sul labbro: ch’egli non serba rancori, non nutre odii, non macchina vendette contro nessuno. E difatti egli non ha mai fatto vittime, né si è prestato utilmente a chi ha voluto farne: non sappiamo se per sincera mitezza d’animo o per avvedutezza di politico, il quale ben sa che le vittime strillano e, prima o poi, preparano la rovina dei carnefici. […]
Già fin dal principio della sua vita pubblica il Patrizi, appunto per le qualità non comuni del suo spirito e della sua cultura, aveva suscitato gelosie, invidie, sospetti nell’ambiente rozzo, incolto e volgare che lo circondava. I suoi correligionari, nei momenti critici e specialmente nelle grandi parate e nelle accademie amministrative o politiche, si servivano allegramente di lui, certi di farci buona figura; egli, titillato nella sua corda sensibile e cedendo allo stimolo d’una non volgare ambizione, profondeva tutto se stesso, il suo ingegno e il suo tempo, sacrificava magari i suoi interessi, cantava come una cicala al sole, sfolgorava in soglio… Ma poi, passato il momento, le invidie e le gelosie, acuite da quel suo effimero trionfo, tornavano ad aguzzare il dente contro di lui, più velenose e più perfide”.