Aldo Pacciarini all’epoca della guerra e in una foto successiva.

Pacciarini Aldo. Alla macchia a Morra

Allora studente universitario di giurisprudenza, il tifernate Aldo Pacciarini (1922-2006) si aggregò alla banda partigiana di Morra, collegata con la Brigata Garibaldi “Pio Borri” di Arezzo. Fu poi volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona”. Di professione avvocato, Pacciarini è stato un esponente di spicco del Partito Repubblicano, della massoneria e della Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra.

 

Antifascisti tifernati
I primi elementi di educazione antifascista li avevo ricevuti da mio padre, da Giulio Briziarelli e dal notaio Cecchini; s’incontravano e assistevo ai loro sfoghi. Inoltre conoscevo Gabriotti come personaggio, perché era molto amico di mio padre, e sapevo quale fossero le sue posizioni. Era mio padre che me lo diceva. Molte volte, quando accompagnavo mio padre, c’erano con lui Gabriotti e altri personaggi che si sfogavano tra di loro. Amici di Gabriotti erano il notaio Cecchini, il dottor Battocchi, Giulio Pierangeli… I discorsi tra loro erano sempre quelli.
Prelevamento di armi dal deposito della Scuola di Artiglieria
Nell’estate del 1943 mi trovavo a Littoria (Latina), ero sergente. Tornai a Castello il 14 settembre. La situazione era già in movimento. La prima cosa che pensammo di fare fu quella di prendere quante più armi possibile dal deposito del reggimento di artiglieria di stanza in città. A differenza di altri corpi, il reggimento di Castello non si era sciolto subito, ci stavano bene qui ed ebbero delle perplessità a sciogliersi. Al momento in cui si sciolse prendemmo quelle armi e le nascondemmo al camposanto.
Alla macchia tra Morra e Ghironzo
Poi scappammo via e ci rifugiammo dalla famiglia Nicasi. Era la seconda metà di settembre. Se non scappavo avrei dovuto rientrare nell’esercito: scelsi la diserzione. Eravamo io, Luigi e Giuseppe Nicasi, Enzo e Mario Berti, Gigi Bernicchi (l’otorino).
Quando Gabriotti, il 25 ottobre, assicurava al Pretore Apponi di aver già organizzato delle bande, si riferiva a noi. Con l’appoggio logistico dei Nicasi, dopo aver trovato delle armi, ci recammo a Ghironzo.
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre ricevemmo la visita di Gabriotti, amico di famiglia dei Nicasi. Fu un fatto simpaticissimo. Ricordo che era una bella giornata. Sapevamo che sarebbe venuto Gabriotti. Di lui si parlava da qualche giorno. Nicasi ci aveva confermato della sua posizione antifascista e soprattutto del suo interessamento alla nostra nascente formazione, e questo ci lusingava. Pensare a Gabriotti comandante di un gruppo come il nostro che ambiva all’azione… C’era un contadino sotto Ghironzo, anche lui come tutti conosceva Gabriotti, preparò una bella pastasciutta, delle tagliatelle; un cosa bellissima, era tanto tempo che non si mangiava roba così buona. L’aspettammo lungo la strada e gli facemmo uno scherzo. Ci nascondemmo dietro ai rovi lì intorno. Lui veniva su con Elio Nicasi, seguiva il sentiero di montagna. All’improvviso balzammo fuori e gli intimammo l’altolà. Lui si mise a ridere. Era uno che non si scomponeva, qualsiasi cosa succedesse. Si fece delle grandi risate e delle foto. Gigi Bernicchi dette poi il rullino a suo padre, che se ne disfece per paura all’epoca dei rastrellamenti. Gabriotti venne su verso le 10.30-11.00 e ripartì nel pomeriggio. Si prese dei contatti tecnici. Ci dette delle indicazioni sui personaggi ai quali avremmo potuto fare riferimento (Briziarelli, Pierangeli ecc.); poi ci dette dei suggerimenti sulla strategia e sull’organigramma. Ma si trattava di cose ancora campate per aria. Ho questa impressione: lui trovò questo nucleo e provò una grande soddisfazione nel vedere che vi erano altre persone come lui contro il regime; ma si parlò come se si fosse davvero un gruppo armato, invece di sei o sette sbandati senza organizzazione, senza niente. Suggerì di operare per la sollevazione dell’intera vallata, avremmo dovuto andare di casa in casa per cercare di convincere… E lui, che gli argomenti logici per convincere li conosceva molto meglio di noi, ce li spiegò. Ci disse cosa avremmo dovuto dire, cosa fare. Ci disse anche quali posizioni strategiche da occupare, quale tipo di guerriglia svolgere. Era un pratico, troppo sognatore e imprudente per poter sviluppare strategie più complesse. Lui ci disse che nel frattempo avrebbe mantenuto contatti con persone in città che ci avrebbero aiutato. Gabriotti conosceva bene quella zona per il suo mestiere di subeconomo; conosceva tutte le parrocchie e ci dette i nomi delle famiglie di cui ci potevamo fidare e di quelle da non fidarsi. Bisognava diffidare delle famiglie dei proprietari, dei coltivatori diretti, dei benestanti, non dei contadini; di essi ci fidavamo, i loro figli erano con noi.
Ritorno temporaneo in città e rapporti con Gabriotti
Poi, non ricordo bene, venne una specie di amnistia che provocò lo sfascio di queste formazioni ancora allo stato embrionale: si poteva rientrare senza rischi. Anche l’appoggio dei familiari, in seguito a questo, venne meno. Allora tornammo a Castello e avemmo per un po’ di tempo una certa libertà d’azione. Fu questo il periodo di ricucitura e di riorganizzazione. I rapporti con Gabriotti erano frequentissimi: andavamo tranquillamente in vescovado nel suo ufficio; era coraggiosissimo. Quel breve periodo di libertà (ottobre e primi di novembre) fu così essenziale per creare i presupposti di una resistenza efficace al fascismo.
Mi ricordo che era con me un certo Alunno Oberdan, un sicuro antifascista, di cui ho poi perso le tracce. Non ricordo perché avevo legato bene con questo ragazzo. Ci andavo con lui in vescovado. Tornati in città, infatti, mantenemmo in piedi una rete di cospirazione non determinata solo da patriottismo, ma anche da spirito di avventura. Poi sarebbe diventata effettivamente un’organizzazione di resistenza, ma allora non lo sapevamo neanche noi a cosa tendevamo.
C’erano tanti particolari che ci sembravano interessanti nella situazione di allora e ci si confidava con Gabriotti, che ci dava indicazioni. Ad esempio, quando presi contatto con gli antifascisti di Sansepolcro, Gabriotti suggerì come poter sviluppare quel rapporto, quali altri collegamenti intraprendere, quali azioni fare… Comunicavamo agli amici quello che avevamo fatto, che avevamo scoperto, che c’erano altre persone che la pensavano come noi, che sapevano dove erano nascoste delle armi, che c’erano delle persone disposte ad aiutarci. Lui era il referente di queste informazioni ed è stato importantissimo perché, al di là che fosse un sognatore o meno, noi avevamo in lui un punto di riferimento. Un punto di riferimento, anche se può apparire soltanto simbolico, è sempre necessario; altrimenti che senso avevano tutte quelle chiacchiere fra noi giovani. Lui ci dava la carica. Era un uomo sempre calmo, tranquillo, non aveva paura di niente. In questi incontri con noi, questo è il problema, lui non era circospetto; lo eravamo assai di più noi. Io ad esempio avevo l’impressione di essere pedinato in vescovado, sarà stato vero? Lui invece ci riceveva tranquillamente in vescovado e parlava di questo o di quello, ci trasmetteva le notizie che aveva avuto chissà come o chissà dove. E questo punto di riferimento ci permetteva poi di ritrasmettere altrove quelle notizie, a chi poteva essere interessato. È in questo modo che ci comunicavamo le notizie sui vari rastrellamenti. Non ho la sensazione che Gabriotti ci parlasse di ideali o di motivazioni spirituali. Era un uomo d’azione; così come lo era stato in guerra, così lo era nella vita sociale. Dopo che tornammo alla macchia non lo vidi più.
Tentativo di insediamento nella zona di Pietralunga
Nei mesi che seguirono presi contatti con alcuni antifascisti di Sansepolcro (Fusco, e l’altro, tale Marzani, figliodelmaresciallo dei carabinieri); trasportammo qualche fucile, invitammo i più decisi e tenersi pronti. Facemmo continui viaggi a Morra, da Elio Nicasi, che rappresentava un punto di riferimento essenziale. Chi coordinava tutto a Castello era Gabriotti.
Il 1° febbraio costituimmo il nostro gruppo. La prospettiva strategica era di istallarci nella zona di Pietralunga. Fu così che mi recai un giorno a Valle Scura per prendere parte ad un incontro con i comandanti di altre bande in via di formazione. Era freddo e tirava vento. Partii con Pasqualino Pannacci, uno di quelli che si era rifugiato lassù sin dai primi momenti. Ma ancora non c’era niente. Solo gruppi di sbandati. In pratica si dovevano gettare le basi per la costituzione delle bande armate ed io avrei dovuto assumere il comando del gruppo di Montebello. Restai lassù alcuni giorni. Si trattò però di una brutta esperienza. Oltre alla completa disorganizzazione si verificò anche uno sbando generale. Venne su infatti Mario Berretti avvisandoci che era in corso un rastrellamento. Scappammo da Valle Scura demoralizzati. Venni giù a piedi con Tonino Gnaldi, che si prese allora la pleurite che ancora l’accompagna. Noi volevamo costituire un gruppetto attivo, numeroso, efficiente. La situazione a Pietralunga ci apparve da “si salvi chi può”.
La banda partigiana di Morra e le altre bande della “Pio Borri”
Da quest’altra parte del Tevere invece si era già organizzata la “Pio Borri”, che si era istallata alla destra del Tevere con efficienza. Il CLN di Arezzo era molto buono, quello di Perugia faceva molta teoria. Se si aggiungeche Gabriotti era un sognatore, vedeva tutto facile, pensare che tutti fossero come lui, coraggiosi, incoscienti, liberi. Diceva sempre “e che ci vuole…!” E poi c’erano questioni di opportunità; potevamo costituire a Morra un gruppo numeroso, autonomo e vicino  a casa nostra. E per di più vicino a Nicasi. Fu così che stabilimmo rapporti stretti con la “Pio Borri” che era già lì. Un altro gruppo operava a Badia di Petroia, [omissis] ma non eravamo in buoni rapporti. Un terzo gruppo comandato da Baffo Guerriero operava a Monte Santa Maria con Signorelli Piero. Eravamo autonomi.
Le nostre sono state per lo più azioni di disturbo. Un certo rilievo ha assunto la presa di Monte Santa Maria. Operammo insieme una notte per occupare il Monte. I collegamenti tra i tre gruppi li teneva Beppe Nicasi. La nostra formazione aveva come comandante militare Angelo Ferri, impiegato alla Cassa di Risparmio a Trestina, che aveva avuto i gradi di ufficiale. In pratica comandavamo io e Nicasi, un comando collegiale; ma non volemmo il comando formale, anche perché è difficile comandarsi tra amici.
Eravamo una trentina. I contatti con Castello li teneva Elio Nicasi. Si muoveva tranquillamente ed era grande amico di Gabriotti. Elio era dei “Nicasi di sotto”, ma si mossero anche quelli “di sopra”. Un altro che manteneva i contatti con Gabriotti era un insegnante d’inglese, un certo Minasi di Bassano, che fu poi scelto come interprete dal governatore di Città di Castello dopo la Liberazione,  Brooke. Una volta ci portò 7.000 lire da parte di Gabriotti; era una bella cifra. Altro denaro ce lo dette Bartolucci Andrea che aveva una proprietà da quelle parti.
Talvolta veniva su Gabriotti, ma si fermava dai Nicasi e noi lo andavamo a trovare lì.
Tentativo di collegamento con la “San Faustino”
Il collegamento tra noi e la “San Faustino” era indiretto, tramite il Comitato di Castello, ma i contatti non erano un gran ché. Una volta dovevamo attaccare di notte un’autocolonna tedesca, noi ai Lamati e loro a san Maiano. Beh, noi partecipammo all’azione, loro non si fecero vedere. Noi distruggemmo una camionetta, sette tedeschi morti. Non ci stette bene che la “San Faustino” non si fece vedere.
Vista la precarietà dei contatti, decidemmo l’8 maggio  di stabilirne di più seri. Partii io in missione e mi ritrovai impelagato nella situazione creatasi per l’arresto di Gabriotti e il rastrellamento a Pietralunga. Non riuscii a passare e decisi di tornare. Per strada mi fermò il milite Pieroni che aveva tempo prima ucciso Luigi Cavallucci. Miracolo fu che mi lasciò andare.
Collaborazione con gli inglesi. Il capitano Greenwood
Le battaglie più grosse le abbiamo fatte insieme agli inglesi. Noi non fummo snobbati, anche perché erano comandati da Martin Greenwood, un capitano paracadutista coraggiosissimo che già aveva avuto a che fare con noi. Infatti era stato paracadutato a Lama con la sua formazione per stabilire collegamenti dietro alle linee tedesche. Finì sul campanile. Gli altri li presero e li fucilarono. …  Greenwood doveva congiungersi al cimitero di Volterrano con un’altra formazione e partì in quella direzione. Non sapeva di noi. Infatti lo scoprì uno di noi – Menco de Sciattino –  che quella notte era di sentinella. Sorpreso nella pineta di Meone, Greenwood si prese un sacco di botte e ci fu portato svenuto. “Ho catturato un tedesco”, “Ma che tedesco, è un inglese”, “Ma che cazzo ne so, parlava tedesco…”. Chiarito l’equivoco lo accompagnammo a Volterrano.
Poi ripassò la linea. Quando ritornò dalle nostre parti arrivò con una camionetta di sigarette per noi. Nei buoni rapporti con gli inglesi giocarono anche fattori psicologici: le truppe erano di colore e potevano sentire una forma di sudditanza psicologica nei nostri confronti; gli ufficiali inglesi però erano bianchi e potevano trovare piacere a ritrovarsi con gente della stessa razza.
Poi non vi erano problemi politici: forse quello che ha nuociuto alla “San Faustino” è stata la vicinanza dei comunisti montenegrini, che agli inglesi di sicuro non piacevano. Con noi c’erano dei russi, ma non avevano costituito gruppi autonomi. Noi non fummo disarmati. Ci congiungemmo con gli inglesi, li conducemmo fino a Morra, combattemmo insieme a loro (era l’11 luglio) e ci lasciarono armati. Il nostro collegamento con gli inglesi durò un paio di giorni. Il nostro gruppo poi restò a Morra, mentre io venni subito a Castello dove fui nominato capo della polizia, a dipendenza degli inglesi. Li richiamai da Morra e vennero giù con le loro armi.

Testimonianze raccolte da Alvaro Tacchini nel novembre 1986 e il 29 maggio 1991. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.