Nel 1881 il comune di Città di Castello contava una popolazione di diritto di 24.491 unità. Vivevano nel centro urbano solo 5.796 persone. Il censimento di quell’anno fece ammontare a 11.218 gli individui occupati in agricoltura e a circa 800 quelli dediti ad attività affini e alla pastorizia. Un’economia, quindi, prettamente agricola.
In città, l’artigianato tradizionale si caratterizzava per un’accentuata frammentazione di unità produttive. Vi erano poche imprese manifatturiere con un apprezzabile numero di addetti. Le otto cappellerie, per decenni vanto dell’industria locale, non davano lavoro che a 75 persone e stavano subendo un’inarrestabile decadenza. Lanifici e filande s’erano ridotti a poca cosa. Le fornaci davano lavoro stagionale ad appena 25 operai. Esistevano poi due tipografie, con 26 addetti. Solo in questo settore si intravedevano orizzonti di sviluppo: lo Stabilimento Tipo-Litografico di Scipione Lapi si stava ampliando e di lì a poco si sarebbe affermato sia come unica cospicua industria tifernate, sia, a livello nazionale, per la rilevanza della sua produzione editoriale.
Nel comune di Città di Castello, dunque, come del resto nell’insieme dell’Alta Valle del Tevere, la preminenza dell’agricoltura sull’industria e sull’artigianato era nettissima. Il censimento del 1881 quantificò in 6.905 i mezzadri e in 3.226 i braccianti; però, analisti locali, contando l’apporto di tutte le braccia lavorative nei poderi, facevano ammontare a oltre 12.000 il numero dei mezzadri. Quanto alla proprietà terriera, nel 1893 Giuseppe Amicizia calcolò in 424 i possidenti. Rispetto all’ultimo scorcio di sovranità pontificia si stava verificando un marcato cambiamento, con un ridimensionamento della proprietà terriera nobiliare ed ecclesiastica e l’acquisizione di cospicui patrimoni nelle campagne altotiberine da parte della borghesia cittadina e di forestieri, tra i quali, appunto, Giulio e Leopoldo Franchetti.
Nel complesso, però, l’agricoltura rimaneva assai arretrata. I proprietari terrieri vi investivano poche risorse finanziarie. Nel contempo la quasi totalità della popolazione delle campagne viveva in condizioni di miseria, per un’alimentazione carente e inadeguata, per le squallide condizioni abitative, per le carenze di igiene, per la salute minata dalla pellagra e da altre malattie endemiche. I contratti colonici penalizzavano i lavoratori dei campi e perpetuavano quella che veniva definita una “mezzadria imperfetta”: tutti i semi erano a carico del mezzadro, che aveva diritto inoltre solo a due quinti dell’uva, doveva pagare una tassa – la “collaja” – per l’uso degli animali da lavoro, aveva a suo carico una parte delle tasse sul podere ed era soggetto all’usanza feudale degli “obblighi colonici”, beni in natura e prestazioni di lavoro da dover offrire al proprietario nel corso dell’anno. La povertà dei contadini contribuiva in maniera determinante a perpetuare condizioni di generale sottosviluppo economico, deprimendo la produzione artigianale e il commercio. Leopoldo Franchetti, consapevole di tale stato di arretratezza, all’inizio del XX secolo sarebbe stato tra i promotori di una revisione dei contratti colonici, con condizioni più eque per i mezzadri.
In città, artigiani, operai e braccianti guadagnavano a mala pena il necessario per permettere una difficile sopravvivenza alle loro famiglie. Chi aveva risorse finanziare era riluttante a investirle in attività industriali. Mancava quindi lavoro e già vi erano avvisaglie di un flusso migratorio che di lì a qualche anno avrebbe assunto dimensioni straordinarie.
Eppure non mancavano fermenti positivi nella società tifernate. Il rigoglioso tessuto di società di mutuo soccorso coinvolgeva ampi strati della popolazione e ne sottolineava le aspirazioni al progresso e alla solidarietà. Come già nell’ultimo periodo di sovranità pontificia, in esso continuarono a trovare un’ampia intesa ideale e operativa gli esponenti più avanzati del mondo cattolico, del liberalismo, dell’artigianato e della borghesia urbana, oltre a qualche esponente dell’aristocrazia. Il movimento mutualista non rimase confinato nell’ambito ordinario dell’assistenza, ma promosse iniziative di istruzione e di educazione popolare, di aggiornamento professionale e di sviluppo dell’artigianato. Particolare rilievo assunse l’impegno contro l’analfabetismo, che nel 1881 riguardava ancora oltre il 76% di uomini e il 92% di donne. Inoltre fu proprio in virtù della maturazione di tali vincoli di solidarietà che negli anni novanta avrebbero attecchito le prime consistenti esperienze cooperative.
Prospettive di sviluppo sembrò offrire l’apertura, nel 1886, della linea ferroviaria Arezzo-Fossato, che lenì l’isolamento geografico dell’Alta Valle del Tevere. Città di Castello, da sempre una realtà di confine – prima tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana, poi tra le regioni Umbria, Marche, Toscana e Romagna – cominciò a sentirsi meno emarginata. Ma continuò a serpeggiare in autorevoli settori della società locale quel disagio che, all’indomani dell’unificazione italiana, aveva portato a richiedere l’annessione alla provincia di Arezzo.
Da un punto di vista politico, mantenne l’egemonia un ristretto ceto possidente. Però le vicende elettorali riguardavano ancora una fascia molto esigua della popolazione: nell’insieme del collegio elettorale altotiberino-eugubino, nelle politiche del 1870 avevano votato solo 222 elettori su 755; nelle elezioni amministrative del 1866 non si erano presentati alle urne che 167 tifernati sui 622 iscritti. In quel periodo, ben 28 dei 30 consiglieri comunali appartenevano alla classe dei proprietari.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.