Il giovane Stato italiano continuò a perseguire l’agognato obbiettivo di estendersi all’intera penisola. Nel 1866 si concretizzò la possibilità di un nuovo attacco all’Austria per liberare le regioni del nord-est ancora sotto il suo dominio. Il comune interesse di Prussia e Italia di ridimensionare l’impero austriaco indusse i due regni a contrarre un’alleanza militare.
Il 7 maggio di quell’anno il sindaco di Città di Castello Amilcare Tommasini Mattiucci mise in preallarme la Guardia Nazionale per la tutela dell’ordine pubblico e avvertì che la Patria era “minacciata dal contegno aggressivo d’una Potenza straniera”: rumori di guerra che stavano preannunciando il terzo conflitto per l’Indipendenza italiana.
Il 9 maggio partivano da Città di Castello 95 volontari al comando di Attilio Trivelli, per combattere quella che si auspicava fosse l’ultima guerra per completare l’unificazione nazionale.
Di quanto fosse intenso e contagioso l’entusiasmo patriottico nei ceti popolari fanno fede le richieste di assistenza inoltrate al Comune da famigliari dei volontari che, per la loro partenza, vivevano in situazioni di grave disagio. Lo stesso Comitato preposto al loro arruolamento avvisò il sindaco che varie famiglie giacevano “nella più completa miseria”, con il rischio, in mancanza di immediate misure, di “vedere languire delle povere donne e degli innocenti bambini”. Angelo Parlani lasciò a casa la moglie e sei giovani figli; Teresa, la consorte, chiese un sussidio anche perché il marito, così tranquillizzato – scrisse – “più forti menerà i suoi colpi nei prossimi dì della mischia”. La moglie di Carlo Raffaelli si ritrovò sola con due figli di appena cinque anni e nove mesi. Rimasero senza “il minimo soccorso” o, a seconda della formulazione delle richieste, “privi d’ogni mezzo di sussistenza” e nella “più estrema miseria”, le mogli di Luigi Antimi (gravemente malata di petto) e del fornaio Giuseppe Carlini; i genitori di Antonio e Giovanni Cenciarini (Giovanni era fornaio); le madri vedove del calzolaio Giuseppe Nisi, dei cappellai Giovanni Zangarelli e Giuseppe Polenzani (il marito della Polenzani era morto per i postumi di una ferita subita l’11 settembre 1860), del falegname Francesco Zurli (che aveva a carico due sorelle), di Benedetto Salvatori (“malata e di visceri, e di più anche nelle mani, che non può in conto alcuno lavorare”) e del fabbro Giuseppe Fracassini; i padri del fabbro Flavio Vallini e del muratore Clito Spapperi, che partì con il fratello Eugenio. Riccardo e Gaetano Gustinicchi, l’uno cappellaio, l’altro fabbro, lasciarono i genitori soli con il fratello invalido; Riccardo, per non dare eccessiva preoccupazione ai congiunti, finse di trasferirsi a Fano per lavoro e da lì si unì al corpo dei volontari. Eppure nelle lettere dei famigliari – in gran parte analfabeti, e quindi scritte da conoscenti o da dipendenti municipali – si leggono calde espressioni patriottiche; grande è l’orgoglio nel veder combattere figli e mariti, a fianco del “Glorioso ed Immortal Garibaldi”, contro “l’iniquo usurpatore della miglior parte della Nostra Bella Penisola”, per “salvare la Patria dall’Austriaca Prepotenza”, “dal feroce croato che da secoli la opprime” e dai “nostri barbari oppressori”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).