Le notizie – e le immagini – che ci giungono dalle aree del mondo sconvolte da guerre ci ricordano che i conflitti non risparmiano bambini e fanciulli. Anzi, ne sottolineano una vulnerabilità alla quale non sembra esserci rimedio, sia che la minaccia provenga da bombardamenti aerei, da cannoneggiamenti e mitragliamenti o da mine e ordigni bellici vigliaccamente disseminati anche dove si rifugia la popolazione civile in fuga dai combattimenti.
Fu così anche nella seconda guerra mondiale e nella nostra valle. Ho calcolato in 822 le vittime civili della guerra e del passaggio del fronte nell’Alta Valle del Tevere umbra e toscana. Di esse 200 morirono colpite da granate e proiettili, 127 per bombardamenti aerei, 157 per esecuzioni sommarie, rappresaglie e fucilazioni compiute per lo più dai tedeschi, ben 224 dilaniate dalle mine e da residuati bellici. In questo scenario, tanti furono i giovanissimi che persero la vita.
Nell’immediato dopoguerra il pericolo maggiore lo rappresentarono le mine che i tedeschi collocarono nei luoghi più impensati per colpire la fanteria nemica e i loro mezzi. Ma mentre i militari alleati – per quanto diversi di essi furono messi fuori combattimento dai micidiali ordigni – in genere sapevano come individuarli o evitarli, la popolazione civile, soprattutto rurale, si trovò in loro balia quando tornò nelle proprie case subito dopo la Liberazione.
Ecco alcuni drammatici esempi. Il 17 novembre 1944 quattro bambini giocavano intorno alla propria casa contadina presso Caprese Michelangelo. L’esplosione di una mina li uccise tutti. Si chiamavano Ermanno e Giuseppino Dini, Marino Vagnuzzi e Italiano Fantoni; avevano dai 9 agli 11 anni. All’ospedale di Sansepolcro, in quel periodo, decedettero due adolescenti per “amputazione traumatica di ambedue le gambe” dovuta a scoppio di mine: Antonio Ugolini, contadino di 13 anni di Sant’Angelo in Vado, e Italia Magrini, di 8 anni, di Santa Fiora. Un’altra mina dilaniò e uccise sul colpo tre giovanissimi pastori nel territorio della parrocchia di Graziano, presso Città di Castello.
Un terribile episodio avvenne il 14 agosto 1944 lungo la strada che porta a Corposano di San Giustino. Morirono quattro ragazzi mentre incautamente cercavano di disinnescare una mina anticarro: si chiamavano Mario e Pietro De Angelis, Italo Ravasio e Pompeo Selvi; avevano da 13 a 15 anni. Fu testimone della tragedia un coetaneo delle vittime, Gerardo Gobbi, rimasto leggermente ferito dall’esplosione. Gobbi racconta che solo uno dei ragazzi spirò poco dopo essere stato colpito. Gli altri decedettero all’istante. Alla gente che accorse dopo lo scoppio si presentò una scena raccapricciante. Ricorda Gobbi: “Sentivo delle persone che dicevano: ‘hanno trovato uno stinco sopra il tetto; un cane con un osso in bocca, la testa nel fiume’. Furono trovate solo due teste, ma irriconoscibili. Andavano a cercare i resti di carne e ossa con secchi, ma ne trovarono pochi perché la paura di pestare le mine anti-uomo ostacolava la ricerca minuziosa nei campi minati. I resti ritrovati furono messi tutti insieme in una cassetta. Sono tutti e quattro tumulati in una sola tomba nel cimitero di Sangiustino”. Lì nei pressi – ricorda Gobbi – lungo i viottoli che costeggiavano i campi, saltarono su delle mine altri due giovani e una mamma di quattro figli, Livia Ruggeri Locci.
La crudele tragicità della guerra si manifestò in un altro fatto avvenuto il 9 luglio 1944 presso Trestina. Antonietta Bartolucci, sposata con Emilio Venturini e in cinta, cercò di portare fuori dalla zona dei combattimenti i figli Antonio e Rolanda. La povera donna aveva appena perso il marito, ucciso dai tedeschi il giorno prima a San Vittorino, nelle vicinanze di Badia Petroia. Giunti presso il Tevere, una mina straziò i due bambini. Rolanda fu curata localmente. Antonio, di appena quattro anni, era invece in condizioni critiche. I britannici lo portarono in un ospedale da campo a Perugia per cercare di salvargli la vita. Andò con loro anche Antonietta. Non ci fu niente da fare. La donna tornò subito a casa per stare vicino a Rolanda e perché si avvicinava il tempo del parto. Incredibile a dirsi, di Antonio non si seppe più nulla; non si sa infatti dove sia stato sepolto, né mai giunse una comunicazione ufficiale del decesso al Comune di Città di Castello. Si era in guerra e ciò che restava della famigliola, povera e segnata da tali avvenimenti, fu assorbito da comprensibili problemi di sopravvivenza quotidiana.
Non si trattò di un fatto isolato. Pochi giorni dopo un veicolo della Croce Rossa britannica portò all’ospedale di Umbertide un bambino raccolto lungo la strada da Città di Castello. Era ferito gravemente alla testa e aveva perso conoscenza. L’equipaggio del veicolo, costituito da soldati indiani, continuò il viaggio verso Perugia, evidentemente per altre emergenze, senza spiegare bene dove avesse raccolto il bambino, dell’apparente età di 10-12 anni. Morì dopo un’ora, il 27 luglio, assistito da una suora. Fu sepolto nel cimitero di Serra Partucci, senza che si riuscisse a dargli un nome. Dieci mesi dopo, non era stato ancora identificato.
Articolo di Alvaro Tacchini pubblicato ne “L’altrapagina”, ottobre 2017. Non riprodurre senza citare la fonte.
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