Nel 1914 lo schieramento laico di Città di Castello si mobilitò per dare degno risalto all’inaugurazione del monumento all’XI Settembre 1860, data dell’entrata in città delle truppe piemontesi e dell’abbattimento del regime pontificio. […] L’adesione alla manifestazione da parte di Pierangeli fu certamente entusiastica. E non solo come socialista. Qualche anno prima era stato tra i promotori dell’Associazione Libero Pensiero, che dette alle stampe il periodico anticlericale “Il Tafano”. Inoltre aveva aderito alla massoneria.
L’ingresso di Pierangeli nella massoneria era avvenuto alla fine del 1907. Nella Loggia XI Settembre di Città di Castello frequentò personaggi di spicco – come Giuseppe Nicasi – e autorevoli artigiani e professionisti. Altri influenti massoni della città facevano allora parte della Loggia Alberto Mario di Sansepolcro, tra cui il sindaco Adolfo Maioli, lo studioso Luigi Gerboni e lo scultore Elmo Palazzi. Quando però, nel 1914, il partito socialista dichiarò l’incompatibilità tra appartenenza al partito e alla massoneria, Pierangeli non esitò ad “entrare in sonno”, a cessare cioè la militanza attiva nella massoneria. […]
Non è a causa dell’adesione alla massoneria, dunque, che maturò la rottura tra Pierangeli e il partito socialista. Una sua lettera del marzo 1915 a Luigi Massa, avvocato socialista di Sansepolcro, conteneva, insieme a giudizi durissimi sullo stato del P.S.I., significative annotazioni autobiografiche:
“Condivido intero il tuo pensiero sull’indirizzo dell’“Avanti!” I dirigenti del nostro partito sono degli ignoranti presuntuosi, fanatizzano e non educano, creano nelle sezioni un’atmosfera irrespirabile di sospetto e di avversione contro gli intellettuali, cui si ricorre poi sempre nel momento del bisogno e cui si deve la fioritura del partito. Oggi il partito nel suo insieme è un morto che cammina, non ha più fascini, non ha più attrattive, non richiede più sacrificio ed entusiasmo. A furia di epurazioni e di castrazioni il partito per amor di purezza si segrega dalla vita civile, e cessa di avere un’influenza efficace. Io vi rimango per inerzia mentale, per nostalgia di memorie care, per la speranza che questa torbida involuzione finisca e che il movimento ascensionale riprenda per effetto di qualche causa esteriore: ma non vedo i sintomi di questa ripresa nell’ora buia e oscura che stiamo attraversando, e mi domando molto spesso se valga la pena di esporsi ai colpi avversarii per la fedeltà al partito quando il partito è così chiuso ad ogni luce di idealità, quando non ha altra voce che il balbettio incosciente di vecchie formule vuote di ogni positivo contenuto”. E ancora: “Noi dissidenti abbiamo la bocca tappata: il fanatismo dei compagni è tale da non consentirci il diritto a parlare liberamente e chiaramente, non per mancanza in noi del necessario coraggio a esprimere le nostre idee, ma per l’incapacità dei compagni a intenderci. […] Mi pare preferibile per noi tutti trarsi in disparte fino a che l’involuzione fanatica non sia superata. Porsi contro corrente vuol dire porsi contro il partito, e fuori del partito: e per farlo occorrerebbe della energia e della attività che io sento di non poter dare più, perché mi vado svuotando intellettualmente in una maniera preoccupante per me stesso. Sto quindi da lato, e ogni volta che capito alle adunanze della sezione mi pento di averlo fatto, perché sento che nulla ho imparato e nulla ho insegnato: mi sono guastato il sangue senza sugo e senza costrutto. È il quarto d’ora dei piccoli uomini, dei piccoli ambiziosi, degli incolti che si atteggiano a sapienti”.
Sunto, senza note, tratto da A. Tacchini, Giulio Pierangeli: l’uomo e il politico, in Giulio Pierangeli. Scritti politici e cronache di guerra, a cura di A. Lignani e A. Tacchini, Istituto di Storia Politica e Sociale Venanzio Gabriotti, Petruzzi Editore, 2003.