Marta Venturini. Volontariato in Perù.

 

“La molla è scattata durante la mia prima esperienza in Perù. Vedevo morire troppe partorienti e troppi neonati; e poi ragazze madri abbandonate a se stesse, la preoccupante diffusione della violenza sessuale, anche in famiglia, con incesti nelle zone più isolate. Tutto colpa dell’ignoranza. Mi rendevo conto di quanto fossero necessarie l’educazione sessuale e l’assistenza al parto. Allora mi sono decisa: voglio fare l’ostetrica e voglio farla qui”.
A raccontarci la sua storia è Marta Venturini, tifernate di 31 anni. Cresciuta con gli ideali dell’Operazione Mato Grosso – associazione con un forte radicamento a Città di Castello – Marta era andata una prima volta in Perù nel 2002. Quattro mesi di volontariato nella Sierra, a 3.500 metri di altitudine, in una scuola fondata proprio dall’Operazione Mato Grosso.
“Là vivevo con 40 ragazze povere ospitate nella scuola. La mattina lezioni, il pomeriggio lavoro, soprattutto produzione di maglioni. Davo una mano nell’insegnamento – anche un po’ di musica, perché so suonare il violoncello – ma soprattutto, insieme alle ragazze, nel tempo libero ci si dedicava all’attività di aiuto ai più poveri del villaggio: li si assisteva a casa, si cucinava per loro, si costruivano case, e tante altre cose. Poi, il sabato e la domenica lavoravo all’oratorio, al quale partecipavano tutti i bambini e i giovani del villaggio: attività educative e religiose, ma anche un pasto garantito a tutti”.
Di ritorno dalla Sierra, Marta inizia il corso in ostetricia e si laurea nel 2006. Un mese dopo – come si era ripromessa – è di nuovo in Perù, nell’ospedale “Mama Ashu” di Chacas. È un’importante struttura sanitaria dell’Operazione Mato Grosso: 60 posti letto, sala operatoria e sala parto. Va avanti grazie al volontariato di dottori italiani, ma il personale infermieristico e di servizio è peruviano. Marta avrebbe dovuto fermarsi solo un anno, ma finì col restarcene due:
“Un’esperienza bellissima, in stretta intesa con due ostetriche peruviane. Avevamo di fronte una situazione sconfortante. La maggioranza delle donne voleva partorire a casa, aveva paura dell’ospedale, di essere costretta a un parto diverso da come lo volevano loro. Bisognava quindi guadagnare la loro fiducia, ottenere la loro collaborazione. Noi cercavamo di convincerle: ‘Ti faccio fare il parto in ospedale come se fosse a casa tua, ma almeno in ospedale eviti i pericoli più gravi’”.
I pericoli incombenti sono le emorragie e tutte quelle complicazioni che spesso causano la morte del neonato e della madre. Inoltre i parti prematuri: è molto più facile salvare in ospedale i bambini che nascono prima del tempo: “Proprio all’inizio mi è morto fra le braccia un neonato prematuro. È stato uno shock per me. Non mi davo pace. A consolarmi era la madre del bambino: ‘tanto lo sapevo che moriva’”.
Unendo le forze con le colleghe peruviane, e lavorando indefessamente, Marta è riuscita a ottenere risultati importanti: “Pian piano le donne della zona hanno capito che meritava partorire all’ospedale e ora la maggioranza si ricoverano volentieri”.
Intanto Marta dava il suo contributo alla scuola di infermieristica del “Mama Ashu”, insegnando e condividendo la vita quotidiana con le ragazze che stavano nella scuola tutta la settimana, alternando studio e pratica in ospedale. E, non paga di ciò, faceva pure volontariato come catechista nell’oratorio di un vicino paesino: “Vivevo a stretto contatto con quella gente: vederne la vita povera, quelle case senza bagno e senza pavimento, mi ha segnato, mi ha spinto a fare di più per aiutarla”.
Ecco perché, tornata in famiglia a Città di Castello dopo quel biennio, Marta sente presto il richiamo del “suo” Perù. Inoltre le allieve della scuola di infermieristica che aveva seguito fino ad allora dovevano completare il terzo anno di corso e lei voleva essere al loro fianco. È allora che si apre un nuovo capitolo:
“La direttrice dell’ospedale, una italiana, mi propone di aprire una scuola per ostetriche. Proprio in seguito al nostro successo e all’incremento delle donne che venivano in ospedale, le mie due colleghe peruviane erano costrette a turni massacranti e non ce la facevano più da sole. Bisognava sfornare nuove ostetriche ed è sorta così a Chacas una sede distaccata dell’Università di Chimbote”.
Il corso di laurea di cinque anni, che Marta dirige, prende il via nell’aprile del 2009 con una decina di ragazze selezionate nei territori vicini. Una nuova avventura professionale e umana, che vede la volontaria tifernate condividere in ogni aspetto la vita quotidiana del gruppo di allieve.
Dopo tre anni, però, si trova dinanzi a un difficile bivio. Verso la fine del 2011 si sposa con Percy, un peruviano originario proprio di Chacas, anche lui volontario dell’Operazione Mato Grosso. È il responsabile di una grande officina dell’associazione, dove si fanno lavori di meccanica, di carpenteria metallica, di carrozzeria e di riparazione auto. Una vera e propria azienda nata proprio per fornire prospettive occupazionali ai giovani del posto. Vi lavorano e vi vivono insieme 16 ragazzi.
Racconta Marta: “Mi si è posta una scelta difficile. Percy non poteva lasciare l’officina e l’impegno preso. Mi sono resa conto che dovevo sacrificarmi e dedicarmi a quella officina-missione, dove i ragazzi vivono insieme a noi, da lunedì a venerdì, ma qualcuno anche il fine settimana. Una enorme comunità da mandare avanti, un grande lavoro che ho sulle spalle”.
Una comunità alla quale, nel giugno del 2012, si è aggiunto suo figlio Francesco.
Marta tuttavia non lascia del tutto il corso per ostetriche: “Sono riuscita a continuare a insegnare anche durante la mia difficile gravidanza; solo che erano le ragazze a venire da me due volte la settimana. Ora, a vivere con loro, è una mia assistente”.
Da dove viene l’energia necessaria a vivere con entusiasmo esperienze così complesse e laboriose? Ad alimentare la forza interiore di Marta è una crescente consapevolezza spirituale:
“All’inizio mi muoveva soprattutto lo spirito di solidarietà, il desiderio di aiutare gente più povera, di donarmi a loro perché mi sentivo una privilegiata. Con il tempo, vivendo esperienze dure, toccando con mano la morte di donne gravide e di bambini, ho sentito più forte la convinzione che se non c’è Dio non ha senso niente, che la sofferenza delle persone ha senso solo se per quelle persone esiste Dio”.
Insieme a Percy e Francesco, Marta ha formato una famiglia italo-peruviana che si trova a testimoniare il valore stesso di famiglia in un contesto sociale assai difficile:
“Ciò che porto sempre dentro di me è il senso della famiglia, per come ho avuto la fortuna di viverla con i miei a Città di Castello. Là situazioni felici e stabili di famiglia sono rare: molti convivono, si lasciano spesso per nuovi accoppiamenti, seminando figli in coppie diverse. Insomma, un’istituzione famigliare fragile, disastrata. E ciò nonostante si tratti di una società dai valori tradizionalisti. La chiesa cattolica si sforza di arginare il fenomeno, ma senza molti risultati; i peruviani – come gli italiani, del resto – sono in maggioranza cattolici, ma poco praticanti. Poi si aggiungono i guai dovuti alla diffusione dell’alcoolismo e al maschilismo prevalente. Anche per questo, vivendo in una comunità di ragazzi, io e Percy dobbiamo trasmettere un esempio positivo di famiglia”.
La vita di Marta è ormai decisamente proiettata nel Perù. Non sente un particolare radicamento nella terra che l’ha vista nascere. Torna volentieri, ma per il bisogno di rivedere le persone che hanno segnato la sua vita. Restano infatti legami profondi di amicizia, specie con quanti qui hanno condiviso con lei l’Operazione Mato Grosso, e di attaccamento verso la famiglia di origine. Non nasconde di aver sentito un po’ di nostalgia in certe situazioni critiche:
“Nostalgia di casa, della famiglia, l’ho sentita soprattutto nei momenti difficili. Durante la mia gravidanza a rischio, identificavo Città di Castello con una maggiore sicurezza e tranquillità. E mi rendo conto che, in caso di necessità, il mio bambino qui avrebbe maggiori opportunità”.
Ma ciò non intacca la convinzione di Marta:
“Quando sto qui risento il bisogno di partire. Mi dispiace lasciare i genitori, specie ora che ho Francesco. Però la vita che mi piace è quella là…”
 
L’intervista è stata pubblicata nel numero di settembre 2013 de “L’altrapagina”.