Lucia Checcaglini: ingegnere a Libreville.

 

Mi piacciono le sfide. Alla fine della scuola media mi bollarono come poco intelligente, inadatta a studi liceali. Invece ho proprio voluto frequentare il liceo classico di Castello e poi mi sono laureata in ingegneria meccanica, quella facoltà che mi avevano descritto come difficilissima, proibitiva per le mie capacità”.

Lucia Checcaglini, trentaquattrenne tifernate, è abituata a porsi obiettivi alti. Non ama la vita semplice e consuetudinaria, le scelte scontate e opportunistiche, il posticino di lavoro sicuro e vicino a casa. Dopo la laurea, nel 2004, avrebbe potuto tranquillamente sistemarsi a Città di Castello, dove il padre aveva un’azienda metalmeccanica.

“Invece”, racconta Lucia, “Avevo il vivo desiderio di partire, di misurarmi con altre realtà, di seguire un mio percorso. Così sono andata a lavorare come ingegnere di produzione in un’azienda di Foligno. Ma non mi bastava. Il mio sogno era uscire da questo ambiente, andare all’estero”.

L’occasione propizia le si presenta quando viene assunta dal colosso italiano ENI. Riesce a entrarci senza nessuna “zeppa”, superando la severa selezione di colloqui e test.

“Il mio” – vanta Lucia – “è stato un percorso fondato esclusivamente su criteri meritocratici”.

Resta in ENI a Milano tre anni e mezzo, il tempo necessario per una piena formazione. Lavora nel settore acquisti e approvvigionamenti per le sedi estere dell’ente, gestendo tutto quello che serve per l’esplorazione del suolo e per la produzione di petrolio.

Matura così il suo tanto agognato impiego all’estero. Viene destinata a Londra:

“Un’esperienza positivissima in una città veramente cosmopolita. Per una ragazza come me, cresciuta a Castello, che non parlava ancora bene inglese, si è trattato di un altro importante e tranquillo periodo di formazione”.

Intanto Lucia accresce le sue conoscenze internazionali facendo continuamente la spola tra Londra e Kazakistan. In quel periodo accetta una nuova sfida. Decide di trascorrere le due settimane di ferie come volontaria in Malawi.

“Era la mia prima volta in Africa. Ho dato una mano, in una zona segnata dalla povertà, dalle morti per Aids. Oltre ai problemi sociali, mi ha colpito il lento ritmo della vita Africa. Tutto diverso dal mio, sempre con la valigia in mano, a fuggire di qua e di là, continuamente impegnata a fare qualcosa, a non perdere tempo, senza avere nemmeno la possibilità di fermarsi a pensare”.

È poi la stessa ENI ad assegnarle una destinazione in Africa. Viene inviata a Pointe Noire, la seconda città più popolosa della Repubblica del Congo; una città petrolifera, dove ENI ha un importante insediamento.

“È stata un’esperienza molto contraddittoria. Risiedevo in quella che potrebbe sembrare una prigione dorata: ENI ti dà villette dove vivere, la macchina. Vivi in una comunità abbastanza chiusa di italiani espatriati, che ti risucchia. Il lavoro ti assorbe anche 12 ore al giorno. Ti senti una privilegiata tra tante persone che soffrono”.

Tuttavia Lucia aveva modo di confrontarsi con il mondo circostante, con il modo di vivere totalmente diverso della popolazione africana:

“La prima reazione è di rigettarlo, di considerarlo uno stile di vita troppo estemporaneo. Ti sconvolge il fatto che il tempo non esiste, che i ritardi siano la regola, che per fare una cosa ci si impieghi il doppio di tempo. Mi sentivo dire: ‘Tu Lucia corri, corri, ma alla fine arrivi dove arrivo io; solo che tu ci arrivi con l’affanno, con lo stress’. In effetti spesso il nostro correre come disperati è eccessivo. Ti fa pensare il fatto che quelle persone possiedono infinitamente meno di noi, ma alla fine si sentono più felici di noi. Là la vita di comunità è forte, ti viene spontaneo aprirti verso gli altri. Sorridere a un’altra persona, anche se non la si conosce, è una normalità. Se lo fai qui ti prendono per scema”.

Dopo due anni di Congo, nel settembre 2011 Lucia viene trasferita in Gabon e diventa responsabile di tutto il settore approvvigionamenti in quel paese. Si sistema nella capitale, Libreville, una città di 600 mila persone, più vicina agli standard europei: belle strade, supermercati dove si trova di tutto. Non si sente più imprigionata in una comunità chiusa di espatriati, ma vive in un ambiente più cosmopolita, più integrato con la città.

Lucia ha diversi amici africani, persone che definisce “splendide”, ma non nasconde la complessità dell’integrazione razziale.

“Non è sempre facile la relazione tra bianchi e neri. Per loro tu sei un bianco. Quando giravo per strada mi chiamavano “mundelè” (“bianca” nella lingua locale). I neri africani hanno una forte identità razziale, anche se sono molto aperti ad accoglierti e a farti vivere con loro. Ho trovato i congolesi di Brazzaville generalmente più riverenti verso i bianchi; forse per il loro passato coloniale. In Gabon sono invece più fieri, manifestano una loro forte identità razziale che tendono a sottolineare”.

Una diversità di razza e di cultura, dunque, che né i bianchi né i neri cercano di nascondere. Troppo accentuate le grandi differenze di abitudini, di modi di vivere. Ma ciò non pregiudica i rapporti.

“Tutto dipende dall’intelligenza delle persone. Le possibilità di rapporto si creano quando ci si viene incontro, quando si capisce l’altro punto di vista e si è disposti a rinunciare a un po’ del nostro. Bisogna aprirsi e accettare le differenze degli altri. Prima schedavo malamente chi era del tutto diverso; ora sono invece più aperta, riesco a capire il suo punto di vista”.

Colpisce, nel leggere il blog di una Lucia Checcaglini ormai così cosmopolita, quel titolo “Una tifernate a Pointe Noire”. Dunque il radicamento nella propria terra resta solido, nonostante il viaggiare?

“Sono di Città di Castello e mi sento profondamente castellana. Sento un legame ancestrale con la mia terra. Le proprie radici non vanno mai dimenticate, altrimenti ci si perde. Castello è il posto dove tornare quando ho bisogno di riposare il corpo e la mente; il posto in cui ho famiglia e affetti. Qui mi sento a casa. Questa terra mi ha trasmesso valori importanti, mi ha fatto credere nella famiglia e nella comunità. No, non siamo nati per essere nomadi”.

Lucia riesce a cogliere con acume alcune specificità delle sue radici tifernati:

“Essere castellano significa mostrare apertura verso gli altri. Non tutti sono così aperti in Italia, o in Umbria. Ci contraddistingue questo senso di apertura mentale, una gentilezza di fondo; non siamo musoni, troppo riservati, non troviamo difficile intrecciare legami. Siamo così a Castello e nella nostra valle.

Forse, concorda Lucia, perché da sempre siamo gente di confine…

“Sì, siamo gente di confine, e si vede. Anche per questo siamo abituati ad essere più aperti verso gli altri, più disposti a condividere. Già a Perugia sono differenti. Mi sento umbra, ma non fino in fondo”.

Radici forti e chiare, che comunque non soffocano l’ormai connaturato bisogno di altre dimensioni:

“Non credo che tornerei mai a vivere a Castello. È una realtà troppo piccola, mi ci sentirei come un pesce fuor d’acqua. Anche se, dopo tanto viaggiare, comincio a sentire il bisogno di maggiore stabilità, vorrei fermarmi in un posto che non mi chiuda in gabbia, che abbia un respiro più ampio di quello che può darmi una cittadina di provincia. Non so se riuscirei a continuare a mettermi in discussione restando a Castello. Sia chiaro: non è una critica alla mia città, che resta il rifugio di cui ho bisogno”.

L’intervista è stata pubblicata nel numero di gennaio 2013 de "L’altrapagina".

 

Post scriptum di Lucia, 10 dicembre 2013

“La mia esperienza in Gabon è terminata. Ho lasciato l’Africa con un misto di tristezza per una terra che non lascerà mai il mio cuore.

Purtroppo ho dovuto fare i conti con ciò che l’Italia è diventata. In Italia è difficile vivere, per certi versi ben più difficile che in un’Africa che noi classifichiamo come terzo mondo. Mi sono accorta che in Italia non c’è spazio per un ingegnere con formazione internazionale. O meglio, anche io non riuscirei ad "arrivare alla fine del mese", una realtà oramai tristemente nota.

Nonostante i tanti sacrifici e le tante esperienze non sono riuscita a "farmi da sola". In Italia la meritocrazia proprio non esiste.

Anche io ho deciso quindi di fare il grande salto: a gennaio lascerò l’Italia per una nuova opportunità a Parigi. Ma il mio cuore resterà sempre in Alta Valle del Tevere..

Certo che noi giovani "emigrati" abbiamo tante cosa da dire: potremmo pure metterci tutti insieme e rivoluzionare Castello! :)”