Sui monti tra Ponte alla Piera e Caprese Michelangelo – l’Alpe di Catenaia – si sono vissute pagine importanti della Resistenza contro il nazi-fascismo. Lassù andarono alla macchia un gran numero di disertori e di giovani renitenti ai bandi per l’arruolamento nelle forze armate della Repubblica Sociale e nel servizio obbligatorio di lavoro. Per lo più provenivano dalla Valtiberina toscana e dal Casentino. E lassù trovarono rifugio tanti slavi, ex internati nel campo di prigionia di Renicci (Anghiari), scappati in massa dopo l’8 settembre. Su quei monti si formarono le bande di “Tifone” (il brigadiere dei carabinieri Giovanni Zuddas), di “Numero Uno” (Arioldo Arioldi, di Sansepolcro) e degli slavi Stefano e Valentino. Su questi slavi, e su alcuni episodi di cui sono stati protagonisti, ecco alcune testimonianze di capresani.
La famiglia di Avre Nardi fu tra le tante che si prodigarono per aiutare i fuggiaschi dal campo di internamento, quando a frotte presero la strada verso Caprese. Tentavano di raggiungere l’Adriatico lungo percorsi meno transitati da tedeschi e fascisti e speravano di poter poi trovare il sistema di tornare in patria. Ricorda Nardi: “Abitavo in parrocchia di San Polo, a Ca di Corsino. S’aveva un poderetto per conto nostro. Quando gli slavi scapparono da Renicci, ogni casa che trovavano si fermavano, chiedevano da mangiare. Tutte le case ne hanno adottato uno. Nel nostro gruppo di case si fermarono in cinque. Anche se nella nostra famiglia s’era diversi – due fratelli, due sorelle e i genitori – gli si dette qualcosa”.
Due di quegli slavi rimasero diverse settimane dai Nardi, ma sempre con la paura di essere catturati e riportati in campi di internamento: “Di giorno stavano con noi; la notte andavano a dormire in un capanno, in una macchia di castagni. Lassù mangiavano le castagne, poveri citti. S’arrangiavano così”. Erano bravi lavoratori, cercavano di rendersi utili per ricambiare l’ospitalità dei contadini: “Uno si chiamava Adolfe, l’altro Franco. Adolfe faceva il falegname a Lubiana, raccomodava i carri agricoli. Sapeva raccomodare anche le sveglie vecchie, che erano ferme da tempo; oh, vedesti come ripartivano… Invece Franco era un barbiere”.
Gli slavi rifugiatisi “al bosco” – come talvolta si dice in Toscana – legarono con la gente del posto: “I rapporti con noi erano cordiali. Si comportavano bene. Si incontravano per strada, la sera quando si andava a veglia nelle case dove c’erano le cittarelle, per ballare un po’. Anche a loro piacevano le citte. Il capo degli slavi, Stefano, l’ho conosciuto lassù: un tipo alto, arzillo, con denti incappucciati d’oro; aveva capelli corti, castani. Un bell’uomo”.
Fino a che durò l’inverno, gli slavi pensarono solo a nascondersi. Non avevano ancora armi. I loro covi erano nella boscaglia. Si riparavano nei seccatoi per castagne, nascosti dalla vegetazione. Il problema più serio per questi gruppi alla macchia erano i viveri. Memori anche della generosità dei capresani, non ebbero atteggiamenti vessatori verso la popolazione. Però alla fine dovettero prelevare forzosamente il necessario per sfamarsi. Afferma Teresa Lucherini, di Colle San Polo: “I partigiani, quelli che erano ‘andati al bosco’, sia italiani che slavi, noi li si chiamava i ‘particacio’, perché venivano sempre a prendere qualcosa da mangiare. Lo si può capire, dovevano mangiare anche loro, ma sempre di ruberie si trattava”.
A proposito di requisizioni effettuate dai partigiani, la più cospicua avvenne nella frazione capresana di Fragaiolo. La famiglia Romolini vi aveva due importanti negozi: uno vendeva stoffa e altri generi e fungeva pure da locanda; l’altro teneva generi alimentari. Vanda Romolini allora aveva 16 anni: “Nel marzo del 1944 i nostri negozi vennero svaligiati dai ‘ribelli’. Noi non si era fascisti, ma gente di chiesa, sempre in prima fila alla messa. Ma quello che faceva gola erano i beni dei due negozi. Una sera sentimmo bussare alla porta e ci vedemmo davanti degli slavi. Dissero che la zona era circondata e che nessuno doveva uscire. Mentre ci tenevano in casa, caricarono sui muli tutto quello che si aveva in negozio. Fecero man bassa di tutto. Portarono via la roba con 33 muli. Nel nostro negozio lasciarono solo il ritratto della Madonna”.
Ci furono momenti di paura: “Ci radunarono nella sala e loro, sei o sette, si misero a sedere davanti a noi sul tavolo, con i mitra spianati. Dissero che dovevano decidere se ucciderci. Noi eravamo terrorizzati, si piangeva, si pregava tenendo stretti in mano i santini. Si diceva: ‘Ma abbiamo sempre dato da mangiare a tutti, abbiamo fatto credito…’ Poi presero dei pezzi di carta e se li distribuirono per decidere la nostra sorte. Una specie di votazione. Ci scrissero qualcosa e li raccolsero. Poi dissero che non ci ammazzavano, perché avevano prevalso i No alla nostra uccisione”.
Vanda Romolini prova ancora risentimento per quella requisizione: “Quei ribelli, ma meglio dire delinquenti e ladri, erano vestiti con divise; di colore avana chiaro. Sembravano tutti slavi, ma poi sapemmo che c’erano anche alcuni del posto. C’era anche un partigiano di Sansepolcro, quello che chiamavano ‘Numero Uno’”.
Per una famiglia di commercianti, quell’esperienza si rivelò traumatica: “Dopo il furto s’era a zero. Fortuna che il babbo fu furbo: aveva nascosto una bella somma di denaro e non l’avevano trovata. Servì per ripartire. Lì per lì ci dettero qualcosa i parenti: chi i lenzuoli, chi altro. Ma poi vennero i tedeschi e ci portarono via tutto loro”.
Comprensibilmente, quando a primavera si accentuò lo scontro tra partigiani da un lato, e nazi-fascisti dall’altro, i capresani, benché avessero anch’essi diversi loro giovani alla macchia, dovettero muoversi con cautela. Sono parole di Teresa Lucherini: “Noi si era presi in mezzo tra tedeschi e fascisti. Si era amici con chi si incontrava”.
C’era il serio rischio di essere presi di mira dai due schieramenti: “I partigiani capresani non si esponevano contro i fascisti, perché qui ci si conosceva tutti. Però dicevano agli slavi chi era fascista; poi ci pensavano gli slavi…” Una pagine oscura e controversa della guerra di liberazione nel Capresano fu proprio l’uccisione di un fascista, la guardia comunale Igino Innocenti. Pare siano stati gli slavi. Il suo corpo non è stato mai ritrovato.
In genere il popolo di Caprese – contadini, boscaioli, qualche operaio, per lo più antifascisti – sapeva di non aver nulla da temere dai partigiani slavi. Non requisivano niente alla povera gente e, anche per ragioni ideologiche, come comunisti solidarizzavano con i ceti meno abbienti. Tuttavia incutevano timore perché non esitavano ad attaccare i tedeschi e a infliggere loro perdite. Non avendo famigliari nella zona, poco si curavano del rischio delle terribili rappresaglie germaniche contro la popolazione civile. Furono vittime di una di esse due uomini della famiglia Romolini. Ricorda Vanda: “Erano due miei zii, fratelli di mio padre; anche loro commercianti, uno di legname l’altro di uova. Era lunedì e si recavano a Pieve Santo Stefano per il mercato. Invece incontrarono alla fonte dell’Acquaiola i tedeschi, che li uccisero. Si trattava di una rappresaglia perché era stato ucciso uno di loro vicino a Chiusi della Verna”. In effetti i partigiani slavi avevano sparato a un motociclista tedesco lungo la strada da Chitignano a Chiusi della Verna. Trovato il corpo del commilitone caduto sul greto di un torrente, i tedeschi si erano recati a Chiusi e poi erano discesi verso Pieve Santo Stefano sparando a chiunque trovavano per strada. La loro legge era ammazzare dieci italiani per ogni tedesco ucciso.
Anche i partigiani slavi ebbero i loro caduti nella lotta di Liberazione. Avre Nardi dà qualche informazione sulla morte di Dusan Bordon e del compagni russo Pietro Fesipovic. Dopo uno scontro a fuoco sul poggio di Garavone, la banda di slavi tornò lungo la strada da Caprese ad Anghiari su un camion che aveva requisito: “Li vidi passare che cantavano, sopra il camion, con i moschetti in mano. Dopo cinque minuti vidi passare una moto e un camion coperto col tendone, con dentro fascisti o tedeschi. Raggiunsero gli slavi vicino a una curva e gli spararono. I partigiani allora scesero dal camion, salirono su per il fiume, verso San Procino e trovarono rifugio nel bosco. Dusan e il russo furono colpiti prima di raggiungere il bosco, alla Madonna della Selva”.
I corpi dei due partigiani furono lasciati lì. A seppellirli degnamente ci pensò la gente del posto.
Testimonianze raccolte da Alvaro Tacchini. Articolo pubblicato ne “L’altrapagina”, dicembre 2014. Testo coperto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.