Lorenzo Alunni. Antropologo a Parigi.

 

“Non ho mai sentito neanche per un secondo il bisogno di ‘fuggire’ dalla mia città. Ma mi viene da dire che sia lei a doversi guadagnare il nostro attaccamento, e non viceversa: se lo dovrebbe guadagnare rendendoci orgogliosi di come la si vive e la si fa vivere, di quello che vi si fa e come, e di quanto si faccia per resistere a una diffusa tendenza all’inerzia”.
A dirlo è Lorenzo Alunni, un giovane tifernate che sta vivendo in Francia, a Parigi, un’importante esperienza di studio. Non vuole certo recidere il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra. Èuno di quegli intellettuali che brama una città più dinamica, più ricca di iniziative e di partecipazione, e che da tempo si impegna concretamente in tal senso:
“Fare belle cose a Parigi è facile; è nella propria piccola città che è più difficile. In questo sono fortunato: ho amici e amiche eccezionali che, anche quando sono lontano, mi permettono di portare avanti assieme a loro degli sforzi di cittadinanza attiva a cui tengo particolarmente, in particolare attraverso la nostra associazione Il Fondino”.
Il percorso all’estero di Lorenzo è iniziato nel 2005 proprio nella capitale francese, con un Erasmus: “Allora abitai per diversi mesi in una delle sue problematiche periferie. Proprio in quel periodo sarebbero scoppiate le rivolte delle banlieues. Non scambierei quell’esperienza per nessuno di tutti gli immaginari più stereotipati di Parigi”.
Quindi gli studi di antropologia, prima all’università di Perugia e poi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi: “Da lì, mi sono imbarcato in una sorta di doppio dottorato di ricerca (in ‘cotutela’, ovvero a cavallo fra Francia e Italia). Ho poi deciso di tornare a Parigi più in pianta stabile quando ho toccato con mano come funzionano certe dinamiche nelle nostre università: è stata l’unica partenza ‘per rigetto’ del mio percorso all’estero”.
L’esperienza di Lorenzo si arricchisce l’anno scorso di una nuova affascinante opportunità: “Finito il dottorato franco-italiano, mi è piovuta dal cielo la possibilità di lavorare per un semestre negli Stati Uniti, all’Institute for Advanced Study di Princeton, una strana e bellissima oasi isolata nel bosco, casa di Einstein e altri santi, e soprattutto di una signora che per le nostre pause ci preparava dei biscotti memorabili…”
Quest’anno Lorenzo è di nuovo a Parigi, grazie al programma Fernand Braudel della fondazione Maison des Sciences de l’Homme: “È un programma fatto per portare in Francia ricercatori stranieri. Post-doc, si chiama. Ma dottorato e post-doc non sono da considerarsi parte di un percorso di studi: sono già parte di un percorso professionale. Il mio soggiorno di ricerca lo svolgo con una équipe interdisciplinare (l’Iris) dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales che si occupa di temi di salute e dintorni in prospettiva politica, economica e sociale. In particolare, il mio lavoro affronta le questioni politiche e di sanità riguardanti i gruppi rom, a cui ho dedicato una lunga ricerca sul campo. E sto cercando di realizzare pubblicazioni scientifiche che rendano la ricerca fruibile e, spero, utile”.
E dopo? “Poi si vedrà. La scorsa estate uno dei membri della giuria della borsa Fernand Braudel mi ha detto: ‘Hai avuto la borsa. Bravo. Ora comincia a cercarne un’altra per dopo’. Proprio non c’è pace. Ma se ripenso a mia nonna che, ventenne, migrò con una valigia di cartone…”
Vien da chiedersi se l’università italiana dia una preparazione adeguata per chi si cimenta in un contesto di ricerca internazionale. Lorenzo vede uno scenario di luci e ombre:
“Che l’università e il mondo della ricerca in Italia siano allo stato di catastrofe non c’è bisogno che lo ripeta anch’io, e sono in pochi a rendersi conto di cosa ci stiamo infliggendo come Paese. Ma continuo a essere spesso testimone dell’eccellenza della preparazione degli italiani rispetto ai colleghi stranieri. ‘You always arrive well trained’ (‘arrivate sempre ben formati’), mi ha detto recentemente un importante studioso canadese. Non sto ora a riflettere sulle ragioni di questa sorta di ‘eccellenza involontaria’, ma non so quanto resisterà ancora: ho l’impressione che si faccia di tutto per toglierci anche quella, e non sempre involontariamente”.
Ai giovani studiosi italiani si prospetta quindi un destino di “fuga” dal Paese?
“L’espressione ‘cervelli in fuga’ la trovo irritante. Anche perché, per essere in fuga, bisogna che ci sia qualcuno che t’insegua. A me non sta correndo dietro nessuno, mi pare…”
E poi, aggiunge Lorenzo, non bisogna illudersi che espatriando si risolva ogni problema:
“Infatti, né la Francia né gli Stati Uniti sono l’Eldorado, tanto meno ora che anche loro stanno subendo il negativo andamento generale. In generale, sarebbe un errore pensare che partire sia una scelta sufficiente. Certo, altrove le risorse e le possibilità sono altre, ma, ripeto, gli Eldorado non esistono. Figuriamoci, per esempio, se a Parigi aspettano il ricercatorino da Città di Castello per dargli subito un posto nella straripante accademia francese”.
Lorenzo sta trovando all’estero più meritocrazia, accompagnata pure da maggiore competitività, di quanto non ce ne sia in Italia. Ma non è tanto questo a colpirlo: “Piuttosto mi stupisce sempre, da italiano, la percezione di normalità del fatto che generalmente i percorsi professionali si costruiscono su quello che si fa, e non su altro. Da noi sono riusciti a disabituarci a una mentalità così lineare. A pensarci bene, la stessa parola ‘meritocrazia’ è di per sé una parola malata, ambigua: è una specie di neologismo di cui non avremmo mai dovuto avere bisogno. Fra l’altro suona anche proprio male”.
Parigi, dove Lorenzo vivrà ancora per qualche mese, si conferma per un giovane intellettuale una realtà unica per stimoli e opportunità: “Le città così cariche d’immaginario sono un’arma a doppio taglio, così come lo è una concentrazione di possibilità così ricca da poter essere quasi intorpidente, se non paralizzante. Ma siccome sono uno di quelli che agli immaginari cede facilmente, riesco ancora ad approfittare di una quotidianità scandalosamente stimolante”.
Quanto al prestigio che può accompagnare un italiano all’estero e all’immagine che l’Italia trasmette, anche qui, secondo Lorenzo, emergono luci e ombre: “Sono stato abbastanza fortunato da incontrare solo gente per la quale il mio essere italiano era tutt’al più una sorta di valore aggiunto. Ma più degli stereotipi negativi – che sono spesso una pigra ma efficace forma di protezione del proprio recinto – mi spaventano le circostanze in cui anche le migliori intenzioni di ‘spiegare’, o addirittura difendere di fronte agli altri il proprio Paese, si scontrano con un vero e proprio imbarazzo: è forse per questo che non sono mai riuscito a rispondere in maniera soddisfacente agli stranieri, tanto in Francia quanto negli Stati Uniti, che mi chiedevano cosa accidenti stesse accadendo all’Italia”.
Un’Italia difficile e imbarazzante, quindi; e una terra d’origine – Città di Castello e l’Alta Valle del Tevere – amata e nel contempo da scuotere e stimolare. Alla luce delle sue esperienze e della sua cultura, Lorenzo rifugge da una visione sentimentale e scontata delle proprie radici:
“Sarà una specie di deformazione professionale, ma come come antropologo tendo a non prendere troppo sul serio il concetto d’identità o, anche meno, quello di radici. Il legame con la mia città sta nelle relazioni e nella consapevolezza di vivere in una comunità di cui essere civicamente fieri. Il resto, per certi versi, viene di conseguenza. Non si tratta di una visione fredda dell’attaccamento alla propria città: è il contrario. L’attaccamento può diventare cecità, pigrizia, abitudine nel senso negativo del termine. Talvolta rassegnazione. Preferisco di gran lunga un rapporto conflittuale, perché il conflitto sa essere fecondo. È che il mio rapporto con Città di Castello lo vedo come una costante, tesa, talvolta faticosa e talvolta fertile negoziazione”.
Quello che Lorenzo chiede, dunque, è un rapporto di reciprocità; pronto a offrire molto, ma pure ad esigere quanto giusto e necessario per vivere in una città migliore. E lui è disposto a dare il suo contributo: “Facile parlare da Parigi, mi si potrebbe dire. Giusto, certo, ma chi l’ha detto che starò via per molto? Ho detto ai miei amici di non credere di essersi liberati così facilmente di me”.
 
L’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre 2013 de “L’altrapagina”.