Una medaglia d’argento al valor militare meritata a El Alamein nel 1942, oltre a tre medaglie di bronzo e tre croci di ferro al merito di guerra, fanno del prof. Armando Lombardi il combattente tifernate più decorato dell’ultimo conflitto mondiale. Subì poi il trauma della cattura e della lunga prigionia. La sua vicenda apre uno squarcio di particolare interesse sulla storia della sua generazione.
Il padre di Armando Lombardi (1921-2012), Volturno, faceva il calzolaio, come il nonno David, in un’epoca nella quale questi artigiani non si limitavano a raccomodarle le scarpe, ma le fabbricavano con grande perizia. La madre Agostina Nittoli, tabacchina, era severa e religiosissima. Così lo mandò a studiare al Seminario. Succedeva spesso nelle famiglie popolari: il Seminario offriva l’opportunità di mangiare e di studiare. E dava inoltre un’educazione severa, come allora si pretendeva per i figli.
“Alle scuole del Seminario feci le elementari; poi mia madre mi ci mandò come collegiale, quando avevo 10 anni, e ci rimasi per altri cinque anni, quelli del ginnasio. Il livello degli studi non era male; tanto è vero che quando detti gli esami da privatista, alla fine del ginnasio, li ho superati brillantemente. Poi ho cominciato il liceo, ma non avevo le possibilità economiche per continuare; mancavano i quattrini in famiglia. Finii quindi come privatista alle magistrali del Collegio Serafini. Lì ero un esterno. Dormivo a casa, come altri castellani. Siccome andavo bene a scuola e ci tenevano a farmi continuare a studiare, il prefetto del “Serafini” mi trovò da fare delle ripetizioni a studenti che avevano rendimento insoddisfacente: così guadagnavo qualcosa. Dopo due anni conclusi gli studi alle magistrali di Gubbio. A 17 anni ero maestro”.
La vita del collegiale a quell’epoca costringeva a crescere in fretta.
“Al Seminario ebbi come primo direttore mons. Bianchi. Poi venne don Beniamino Schivo. Schivo era aperto, ma naturalmente si imponeva una certa disciplina: si imparava ad essere ordinati, disciplinati; si cominciava a vivere da sé già a 10 anni, a rifarsi il letto, ecc. C’era severità”.
E il legame con i genitori?
“Tornavo a casa solo per le vacanze. Mia mamma mi veniva a trovare una volta la settimana. Sentivo un po’ la mancanza di casa, ma non ne avevo tanto il tempo, perché mi dedicavo molto allo studio. Naturalmente ci istruivano e ci educavano per farci diventare preti, per farci trovare la vocazione. Ma non tutti la trovavano: con me c’era anche Luigi Angelini [poi sindaco socialista di Città di Castello]. Diversi figli di popolo, pur di poter studiare, finivano al seminario. Si pagava una piccolissima retta. Per divertirsi c’era l’ora di ricreazione, e giocavamo a pallone nel campetto. E la passeggiata: era tipica la lunga fila di seminaristi a passeggio per Castello; si era parecchi, nel solo ginnasio 5 classi. Ma per il resto, scuola e ore di studio”.
Come vivevate il regime fascista dal Seminario?
“Frequentare le scuole vescovili mi ha permesso di evitare l’Opera Balilla. E poi non c’era grande simpatia tra Azione Cattolica e regime. Conobbi che cosa era il regime quando passai al “Serafini”. Lo dirigeva Guido Meroni, una persona veramente in gamba. Una ottima organizzazione: si studiava e si imparava. Poi c’erano la squadra di calcio, la banda musicale… Un bel collegio”.
Politicamente?
“Dal punto di vista politico, Meroni si barcamenava; ma c’era poco da fare, a quel punto lì bisognava essere fascisti. O per lo meno dare l’impressione di esserlo. Si barcamenavano un po’ tutti. Anche Luigi Pillitu [che era stato allievo del collegio e poi avrebbe sposato la figlia del proprietario Meroni]; anche lui ci faceva lezioni nei corsi premilitari, lo ricordo. Si dava da fare, era sicuro di sé e intraprendente, emergeva; aveva carisma anche allora”.
Anche lei, insomma, quando scoppiò la guerra, era uno dei tanti giovani nati e cresciuti nel fascismo, pertanto convinti fascisti.
“Per me il fascismo è stato un sogno, che è finito malamente. Ma io credevo in questa Patria. Allora ci inculcarono l’amore per la Patria; e ci si credeva. In guerra eravamo convinti di combattere per la pace, di combattere le potenze demoplutocratiche, come venivano chiamati allora i paesi capitalisti più ricchi. Pensi che sono partito per la guerra avendo come simbolo Venanzio Gabriotti, l’eroe della prima guerra. Quand’ero giovane, nelle manifestazioni patriottiche ci portavano lui come simbolo. Lui stesso, in quegli incontri, esaltava i valori della Patria. Allora lui era nazionalista, come tutti, del resto. Quando sono tornato e venni a sapere della sua fucilazione da parte dei fascisti rimasi frastornato”.
Lombardi combatté in Africa come sottotenente, distinguendosi in particolar modo nella battaglia di El Alamein. Una delle croci di ferro glie la conferì di persona il comandante in capo delle truppe tedesche, Rommel. Poi la cattura da parte degli inglesi, il 7 novembre 1942, e la lunga detenzione in un campo di concentramento in India, alle falde dell’Himalaia.
Com’era la vita in prigionia?
“Ci voleva una forza d’animo notevole a stare chiusi lì dentro. Era la totale mancanza di libertà che ti faceva soffrire. Ogni mattina la conta, tutti in fila… Si trattava più che altro una formalità; dove potevamo andare? Però ti umiliava. Io ero già iscritto a lingue. Ho passato tanto tempo tra i libri anche in prigionia. Raccoglievo i libri che ci arrivavano ed avevo fatto una specie di biblioteca. Passavo le giornate studiando. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ci dettero maggiore libertà. Potevamo uscire dal campo e gli inglesi si accontentarono di un nostro impegno scritto che saremmo rientrati la sera. Del resto, da lassù non si poteva fuggire. Facevo lunghe camminate in quella valle circondata da alte montagne; visitavo il villaggio vicino. Si aveva l’obbligo di non parlare con nessuno, ma tolleravano. Difatti, parlando con gente del posto e soprattutto dei ragazzini, avevo fatto una specie di grammatica della loro lingua”.
E i rapporti con gli inglesi?
“La prigionia per me ha rappresentato quattro anni di battaglia. Con loro ho avuto sempre a che fare. L’Intelligence Service mi ha perseguitato. Sapevano della decorazione datami da Rommel e mi hanno preso di mira. Sapevano torturare, gli inglesi; in maniera più pulita, non come i tedeschi. Mi chiamavano in piena notte. Siccome per la convenzione di Ginevra potevano perquisirmi, mi facevano spogliare tutto nudo, poi mi facevano rivestire. Questo me l’hanno fatto diverse volte. Lo facevano per umiliarmi. Per dispetto, prima di uscire li salutavo col saluto fascista; e li prendevo in giro: ‘Siccome m’avete fatto togliere la bustina [il copricapo militare], non vi posso salutare che così…’”.
Lo tartassavano anche perché lei si rifiutò di collaborare con loro.
“In effetti gli inglesi speravano che mi mettessi a collaborare con loro. Molti prigionieri lo fecero dopo l’armistizio. Mi convocarono diverse volte per chiedermi di collaborare, ma io niente. E siccome, nel campo, ero un po’ un capopopolo in prigionia, mi presero di mira”.
Cosa rispondeva loro?
“Non ero un fanatico, ma mi comportavo da uomo d’onore. Rispondevo agli inglesi che rifiutavo di diventare un ‘prigioniero di lusso’, trasformandomi da nemico in cobelligerante. Dicevo inoltre che non avevo nulla contro di loro; però, da prigioniero, non potevo scegliere di collaborare con loro. Se mi lasciavano libero, potevo anche scegliere di stare con loro. Non poteva essere una libera scelta quella di un prigioniero”.
Provava risentimento contro gli inglesi?
“Non solo risentimento, ma odio. Erano sprezzanti verso noi italiani. Razzisti; su questo non c’è dubbio. Ci chiamavano di continuo ‘macaroni’. Ci consideravano poco più dei negri. Posso capire perché lo facevano, ma, allora, questo loro atteggiamento finiva con il rafforzare in noi la convinzione che avesse ragione Mussolini. No, non li ho mai percepiti come maestri libertà; se mai di oppressione camuffata. E io mi sono sempre ribellato contro la loro prepotenza”.
La sua fidanzata le inviata lettere nelle quali manifestava la sua disillusione con il passato regime e un certo entusiasmo per la riconquistata democrazia. Lei reagì male a quelle lettere.
“Lì per lì ero arrabbiato con la mia fidanzata. Mi scriveva di continuo. Mi diceva che in Italia era tutto cambiato, che tutti i sogni di un tempo erano ormai irrealizzabili, che i valori di un tempo erano ormai tramontati. L’Intelligence Service si serviva di queste lettere per esercitare una pressione su di me. L’ufficiale inglese mi chiamava a rapporto e mi diceva: ‘Guardi, tenente, cose scrive la sua fidanzata!’ Mi ricordo che risposi: ‘Poverina!’ Che ne sapevo io…
Non cedevate per un senso dell’onore. Come è maturato in lei il concetto di onore, prima e dopo l’esperienza della prigionia?
“Eravamo imbevuti di valori profondamente sentiti, la Patria, la bandiera, la famiglia, il rispetto per i superiori. Erano vestiti di tanta retorica, ma ci credevamo tutti”.
E il “credere, obbedire e combattere” era una componente qualificante dell’onore di sentirsi italiano?
“Senza dubbio”.
Ma si trattava dell’obbedire a un dittatore che mandava allo sbaraglio una generazione di italiani.
“Me ne rendo conto. Però a questa convinzione ci sono arrivato dopo. Quando rivivo quei momenti mi sembra strano che io credessi a certe pagliacciate, che assumessi certi atteggiamenti. Invece allora si diceva, convinti, pensando a Mussolini: ‘Guarda che uomo che ci ha dato la Provvidenza’!”
Eravate vittime del culto della personalità del Duce.
“Ma allora era diffusa la convinzione che grazie a lui l’Italia contava nel mondo”.
Lei dice che sentivate come giusta quella guerra. Però non si trattava di una guerra per difendere la Patria, ma di una guerra di aggressione, di conquista.
“Non la percepivamo così. Ci avevano insegnato che bisognava combattere contro le potenze demoplutocratiche che impedivano all’Italia di espandersi come era suo diritto, al fascismo di realizzare i suoi obbiettivi”.
Quindi voi giovani combattenti condividevate la mentalità e le aspirazioni imperialiste del fascismo.
“A quel tempo si. Credevamo che anche per l’Italia fosse giusto avere un impero, come lo avevano le altre potenze, dove dare la possibilità al nostro popolo di espandersi e di poter portare lavoro”.
E come percepiva lei l’alleanza con Hitler?
“Lo vedevo appunto come un alleato, un alleato stretto e fidato di Mussolini; uno che, anzi, in molte cose aveva copiato Mussolini. Solo quando, con l’Anschluss, annetté l’Austria ebbi la sensazione che avremmo potuto avere problemi con lui”.
Non si rese conto allora della pericolosità delle leggi razziali del fascismo?
“No, non se ne parlava. Ma già allora non le capivo, non mi capacitavo del perché bisognasse essere contro un’altra razza umana. Questo spiega anche il senso di ribellione che provai quando, in prigionia, furono gli inglesi ad assumere atteggiamenti razzisti nei miei confronti”.
In prigionia, nello stesso campo, lei ritrovò l’amico Luigi Angelini. Anche lui scelse di non collaborare?
“Si. Quando arrivai a quel campo, trovai che lui già vi era detenuto da diverso tempo. Lilo, così lo chiamavo, scriveva poesie. Qualche volta la sera sembrava parlare con la luna; guardava verso il cielo, si avvicinava al reticolato e parlava a voce alta. ‘Tenente!’ mi dicevano ‘il suo compaesano si avvicina troppo pericolosamente al reticolato; rischia di essere fatto fuori con una fucilata’. Allora corsi là è gli gridai: ‘Ma che fai, sei troppo vicino, ti sparano! Pensano che vuoi fuggire’. Lilo viveva un periodo particolare, era un po’ esaurito. La vita del prigioniero, con la totale mancanza di libertà, era durissima”.
Le sue vicende in guerra ebbero dei riflessi politici quando tornò.
“Sì. A Castello cominciarono corteggiarmi. Noialtri reduci di valore eravamo ambìti. Durante la guerra i giornali avevano parlato di me. Stava nascendo il MSI allora. Fu lo stesso Almirante, che conoscevo, a chiedermi se volevo partecipare alla fondazione di questo movimento. Prese contatto con me a Perugia proprio perché conosceva la mia storia. Io gli dissi che non me la sentivo, ancora non avevo deciso. Non che non avessi delle idee in testa, ma ancora non mi rendevo conto. Ero tornato con i valori con i quali ero partito, però la realtà che avevo trovato mi lasciava a disagio. Anche Facondo Andreoli [l’esponente più autorevole del Movimento Sociale tifernate nel dopoguerra] era tornato. Almirante mi chiese allora di dargli delle referenze su Andreoli. Io gli dissi che era una bravissima persona”.
In quel periodo ci fu una festa di nostalgici fascisti a Garavelle che suscitò indignazione.
“Mi ricordo che invitarono anche a me a questa festa. Non sapevo di cosa si trattasse in realtà. Pensavo che fosse una festa come un’altra. Mi ritrovai invece tra gente che mi esaltava. Mi ritrovai invece tra gente che mi esaltava. C’erano anche belle donne, qualcuna addirittura disponibile, e dopo anni di prigionia… Ma ero fidanzato… I giorni dopo ci fu un putiferio; anche in casa mi rinfacciarono che avevo preso parte a una festa caratterizzata in senso politico. Ma che ne sapevo io? Finì tutto lì; comunque quell’episodio contribuì a farmi considerare con maggiore attenzione le novità politiche italiane”.
E come finì nella Democrazia Cristiana?
“Alle elezioni del 1948 mi resi conto che ormai non si poteva più tornare indietro. In quella fase ho avuto vicine due persone, Pietro Gaggi, con cui ero amico, e il professore Angelo Gambuli. Gaggi mi voleva tra i comunisti, Gambuli tra i democristiani. Io ero un po’ di sinistra, ma mica tanto; e se andavo col PCI, mia mamma mi scomunicava… Poi Angelo Gambuli era una gran brava persona. Insomma, finì che mi sono presentato nel 1952 nella DC come indipendente. Io allora ero già segretario del sindacato dei maestri SINASCEL e avevo un certo seguito. Difatti fui eletto”.
Fu l’inizio di una lunga carriera politica. Eletto per tre mandati consigliere comunale della Democrazia Cristiana, ne è stato anche capogruppo e segretario comunale. Fu anche segretario provinciale del partito e delegato regionale ai congressi di Napoli e di Trento. Come amministratori si è dimostrato efficiente e pragmatico. Ha presieduto, tra i vari enti e istituti, il Patronato Scolastico, l’Opera Pia Muzi Betti e gli Ospedali Uniti.
Quale, tra le sue esperienze politico-amministrative, può considerare il suo fiore all’occhiello?
“Credo di aver dato un’impronta all’Ospedale. Sono stato 20 anni amministratore, dieci dei quali come presidente. L’ho preso che era un’infermeria. Con me è diventato ospedale provinciale, con 9 primari; da 20 dipendenti si era arrivati a 300”.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 23 agosto 2005 e pubblicata ne “L’altrapagina”, gennaio 2016. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
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