La più longeva delle officine meccaniche, la “Vincenti”, con il passar degli anni avrebbe attenuato il carattere originario di azienda polivalente, per dedicarsi sempre più ai lavori agricoli. Nel 1920, nel reclamare per l’entità della tassa di esercizio, Guglielmo Vincenti sottolineò che l’azienda era “piuttosto officina di riparazione per le nostre macchine a trebbiare, e perciò officina quasi privata, che officina per lavori altrui”. L’anno successivo tornò a chiedere una riduzione dell’imposta, ironizzando sull’eccessivo rilievo attribuito dalle autorità comunali alla sua poliedrica attività imprenditoriale di fabbro-meccanico, industriale tessile, mulinaro e fabbricatore di ghiaccio.
Ormai anziano, impossibilitato “ad attendere utilmente e attivamente all’esercizio delle varie industrie”, Guglielmo Vincenti aveva deciso già nel 1917 di lasciare le attività imprenditoriali ai figli Vito e Washington, che da tempo lo coadiuvavano “con intelligenza e premura”, contribuendo in modo significativo all’incremento del patrimonio. Ereditarono loro, quindi, il mulino del Sasso, le attrezzature e i “filati e cotonine in magazzino” dell’antico lanificio Vincenti, la fabbrichetta per la produzione di ghiaccio, il forno con impastatrice di Rignaldello, le macchine per la trebbiatura e l’officina, dotata allora di un tornio e due trapani.
Per il lavoro agricolo, la “Vincenti” aveva un parco macchine considerevole per gli standard locali: ben otto locomobili con trebbiatrici – in genere di marca Ruston – ed elevatori, una spigolatrice e due sgranatoi da granturco, una trebbia a semi. In seguito si sarebbe dotato anche di alcuni trattori, una novità per la zona. Impiegava una dozzina di operai, che diventavano una ventina, in estate, nel periodo di più intenso lavoro. Per la battitura, chiamavano Vincenti da tutta la valle. Tale attività teneva impegnata l’officina anche nei mesi successivi. Si dovevano “rimettere a posto” le macchine, ripararle e sostituire le parti logorate. Cosa tutt’altro che semplice: gran parte di esse erano straniere e mancava l’assistenza delle case produttrici. I meccanici dovevano quindi ricorrere a tutta la loro esperienza e intuitività e, per le responsabilità che ne conseguivano, veniva ad assumere un rilievo particolare il ruolo di capofficina. Tale figura acquisì ulteriore importanza dopo la morte di Guglielmo Vincenti, nel 1922, dal momento che i figli Vito e Washington seguivano soprattutto gli aspetti amministrativi.
Proprio la scomparsa del fondatore accelerò la trasformazione dell’azienda. Essa, comunque, mantenne un rapporto di lavoro consolidato con il Comune, che le affidò con continuità complesse riparazioni alle turbine e agli altri macchinari dell’officina idroelettrica e ai pozzi artesiani. La “Vincenti” fornì anche le apparecchiature elettriche per il nuovo acquedotto, alcuni attrezzi per il mattatoio e travi in ferro per i locali delle scuole; inoltre, a testimonianza della sua perdurante duttilità, riparò serrature, fontanelli, la pesa pubblica, la pompa della nettezza urbana, il ponte in ferro di Piosina e, più volte, la “botte adibita al servizio vuotatura dei pozzi neri”; ebbe persino modo di impiantare un nuovo orinatoio alla Mattonata. Per la Ferrovia Centrale Umbra ristrutturò “bagagliai a casettoni” e costruì intelaiature in ferro e cabine. Continuò a produrre anche torchi da uva, cancelli, ringhiere e altro materiale per fabbricati; per il nuovo edificio dell’Asilo “Cavour” eseguì la balaustra. Una produzione tanto diversificata avveniva soprattutto nel periodo invernale, riuscendo così a garantire l’occupazione degli operai non impegnati nella manutenzione delle macchine agricole. In seguito la “Vincenti” si sarebbe dedicata anche all’impianto di sistemi di riscaldamento a termosifone.
Il passaggio della gestione da Guglielmo ai figli non comportò alcun mutamento nello stile di un’azienda che si era guadagnata fama di esemplare correttezza. Dopo la Grande Guerra, furono tra i primi a “mettere in regola” gli operai con le nuove disposizioni della previdenza sociale e a garantire fino all’ultimo centesimo quella paga settimanale che in altre aziende veniva talvolta fatta sudare.
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L’Officina Vincenti subì seri danni nel bombardamento del maggio 1944. Durante il successivo passaggio del fronte, i Vincenti salvarono almeno le macchine agricole; previdentemente le avevano smembrate, occultando in campagna i pezzi accuratamente catalogati. La sopravvivenza dell’industria meccanica deve molto alla convinta solidarietà dei contadini. L’azienda, dunque, salvate le attrezzature e le macchine per la trebbiatura, ripristinò subito la sede bombardata. Nell’immediato dopoguerra le giunsero diverse commesse per le parti in ferro di ponti da ricostruire, tra cui quelli sui torrenti Vertola e Selci a San Giustino e sullo Scatorbia a Rignaldello. Oltre al consueto lavoro estivo di trebbiatura, continuò a dedicarsi alla riparazione delle macchine agricole e, sviluppo più recente, dei camion. Si propose ancora per lavori artistici in ferro battuto e fornì ghiaccio, ossigeno e gas. Guidata da Walter Vincenti, si specializzò infine nella manifattura e montaggio degli impianti di riscaldamento. Nell’officina erano inizialmente occupati una quindicina di operai fissi, che raddoppiavano l’estate per la battitura. Poi il numero di addetti progressivamente decrebbe. La ditta, con azienda meccanica, restò attiva fino al 1982. L’esercizio della trebbiatura era venuto meno qualche anno prima.