Città di Castello contava allora poco più di 6.000 abitanti nel centro urbano e quasi altri 20.000 nel vasto territorio rurale. Una realtà, quindi, prevalentemente agricola. Nei poderi, condotti a mezzadria, si coltivavano molto grano e granturco, quasi esclusivamente per l’alimentazione della popolazione della vallata, si produceva vino di non eccelsa qualità e si allevavano bovini in quantità tale da poterli esportare anche fuori zona. Cominciava ad estendersi la coltura del tabacco, che di lì a qualche tempo avrebbe contribuito in modo determinante ad elevare il reddito di un’agricoltura in genere povera, arretrata quanto a metodi e tecnologie.
Se la popolazione tifernate stagnava da inizio secolo, era anche perché da anni infieriva la piaga dell’emigrazione. La mancanza di lavoro, o comunque di dignitose condizioni di vita, sospinse centinaia di persone sia del centro urbano sia delle frazioni a trasferirsi all’estero, specie in Francia e nelle Americhe. Le prospettive occupazionali per i ceti meno abbienti non suscitavano soverchie illusioni. Sebbene non mancassero chiari segni di sviluppo, soprattutto per la tenacia di alcuni artigiani e la lungimiranza dei pochi esponenti della borghesia disponibili ad avviare nuove attività produttive, non poteva non turbare l’opinione pubblica la grave crisi che stava mettendo a repentaglio l’esistenza stessa dell’industria cittadina più importante: lo Stabilimento Tipo-Litografico “Scipione Lapi”. Proprio nell’estate del 1909 un duro scontro tra le maestranze e gli amministratori preluse al fallimento di un’azienda che dava lavoro a un centinaio di addetti. La “Lapi” sarebbe sopravvissuta a quel drammatico frangente, così come in breve tempo avrebbero assunto una ragguardevole consistenza altre due tipografie: la “Unione Arti Grafiche” e la “Leonardo da Vinci”. Tuttavia, quando nasceva la Scuola Operaia, su questa industria tifernate incombevano fosche nubi.
Un certo dinamismo stava mostrando l’industria meccanica. L’azienda di Vincenzo Gualterotti e Attilio Malvestiti aveva assunto dimensioni apprezzabili e cercava di proporre prodotti di interesse anche per una committenza non altotiberina. Vi erano poi le officine della Ferrovia Appennino Centrale, di Guglielmo Vincenti e di Giuseppe Montani. Inoltre fu nel 1909 che Samuele Falchi e Tommaso Beccari assunsero l’eredità della Cooperativa dei Fabbri Meccanici ed Affini, che dall’inizio de secolo realizzava con successo soprattutto manufatti in ferro battuto e prodotti per l’agricoltura. E fu nel 1909 che l’ancora piccola bottega di Francesco Nardi, sita nella frazione di Giove, si guadagnò per i suoi aratri un prestigioso riconoscimento nella IV Esposizione di Parigi: quella “Nardi” che sarebbe diventata uno sbocco fondamentale per i diplomati della Scuola Operaia.
Qualche segnale di sviluppo proveniva anche dal settore della lavorazione del legno, con la Cooperativa di Lavoro fra Falegnami e Affini e la Società Anonima Lavorazione Legnami. Per quanto riguarda gli altri settori produttivi, tra le fornaci si stava espandendo la Fornaci Sociali Hoffmann Tifernate, sorta nel 1908, stesso anno in cui prese ad operare il Laboratorio Tela Umbra. Nell’edilizia, contavano diversi addetti una cooperativa mandamentale di muratori e le imprese di Bernardo Andreoni – che avrebbe collaborato come istruttorie con la Scuola Operaia –, di Angelo Zandrelli e di Napoleone Bistoni.
Intorno alle aziende citate, gravitava il complesso e frammentatissimo mondo dell’artigianato minuto. Piccole botteghe di falegnami, fabbri, decoratori, scalpellini e via dicendo che sopravvivevano faticosamente in angusti e spesso insalubri locali del centro urbano. Artigiani che avviavano al mestiere garzoni secondo la lunga e antica prassi dell’apprendistato, trasmettendo loro – spesso parcamente, per non allevare troppo presto dei pericolosi concorrenti – una professionalità ricca di saperi tradizionali, ma ormai insufficiente in un mondo che richiedeva sempre di più prodotti nuovi, conoscenze tecnologiche, raffinatezza e precisione di esecuzione.