Lo scalpellino – a Città di Castello lo si chiamava solitamente “scarpelìno” – era una figura di rilievo dell’artigianato edile. Spettava a lui realizzare, o riparare, molti dei manufatti in pietra necessari alle case e alla loro costruzione: soglie di porte e finestre, davanzali, stipiti, scalini, balaustre, architravi, frontoni, pilastri, capitelli, vasche, acquai, lavandini, camini e focolari. Inoltre selciava cortili e stalle, produceva e metteva in opera pietre per forni, molini e latrine, tavole per cucine, lapidi per sepolcri, “stampe dell’acqua santa” per chiese, “brègni” per stalle. Era lo scalpellino a curare la pavimentazione delle strade, con selci o lastre, a fare le bocchette traforate (“forazze”) per i tombini delle chiaviche, i chiusini per i pozzetti e le fognature, i paracarri e le colonnette poste ai bordi di vie e piazze. Talvolta veniva chiamato per restauri agli elementi in pietra delle mura e delle porte urbane, del ponte sul Tevere e degli altri edifici municipali.
Ricurvi sulle pietre, gli scalpellini dovevano operare tra la polvere e le schegge, esposti al sole e alle intemperie. Si trattava di un lavoro duro, sovente monotono, che richiedeva forza, ma anche cautela e precisione per sgrossare e poi rifinire al meglio la pietra.
Il primo scalpellino di un certo rango ad apparire all’inizio dell’Ottocento è Giuseppe Gerli. Lavorò assiduamente per le autorità religiose insieme al figlio e ad altri operai: Gaetano, il “Fiorentino” e “Gnagnone”. Di un altro scalpellino di poco successivo, Luigi Bigiarola, è noto il luogo dove esercitava il mestiere; nel 1835 conciava le pietre nella piazza di Santa Margherita, “sotto lo stillicidio di una privata casa senza impedire il pubblico uso della piazzetta”.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note