Popolani altotiberini all’epoca.
Disposizione per la disinfezione a Umbertide.
Disinfezione delle strade negli USA.

L’igiene pubblica

Il dilagare della “spagnola” fu favorito dalla problematiche condizioni igieniche in cui si viveva all’epoca. Una estrema vulnerabilità sia dei centri urbani che della campagna. Lo confermano cronache e documenti di archivio. “Le immondizie si trovano ovunque nel nostro paese”, si legge in un articolo su Sansepolcro, che lamentava la mancata vigilanza da parte dei vigili urbani; anche un consigliere comunale sollecitò l’amministrazione a dare un’impronta di maggiore pulizia alla città. E a San Giustino: “i maiali si tengono negli stalluzzi entro il paese, li si abbeverano fuori delle case, da dove si butta, in mezzo alla strada, ogni ben di dio”. Analoga la situazione a Città di Castello, dove si denunciò l’inciviltà di tanti “cittadini sporcaccioni che mettono o gettano dalla finestra sulla strada ogni sorta di immondizie”. A Umbertide la commissione sanitaria municipale fu sollecitata a effettuare ispezioni “nei sobborghi malsani e in campagna”, dove alcune famiglie vivevano “in condizioni igieniche primitive”, e a far applicare alla lettera i regolamenti comunali. Nella campagna elettorale per le elezioni amministrative di Montone e Pietralunga, nel 1914, i socialisti posero la questione del miglioramento dell’igiene pubblica tra le priorità da affrontare.
La relazione di una guardia municipale di Pieve Santo Stefano apre uno squarcio significativo sulle condizione igieniche del paese, che, ammise, lasciavano molto a desiderare “C’è l’abuso di buona parte della popolazione nel fare depositi di spazzatura, nell’ingombrare le strade, nel gettare immondizie dalle finestre a tutte le ore del giorno. Vi sono galline e oche, capre e conigli che liberamente godono dei pubblici passeggi, e di qualche strada interna, si abbandonano senza ordine sulle strade barrocci carichi e scarichi, botti e attrezzi di ogni specie, in molti luoghi si fanno depositi di legname e di materiali da costruzione senza il previo permesso dell’autorità municipale, si stende fieno, si mettono pelli ad asciugare, si transita con legnami a trascino e con tregge, si commettono insomma liberamente una quantità di abusi che concorrono a ingombrare, a insudiciare ed a danneggiare le strade”.
La dilagante miseria non aiutò. Città di Castello sembrò invasa da cani randagi. “Da quando il pane è razionato” – scrisse “La Rivendicazione” – “[la città] è pressoché riempita dei cosiddetti amici dell’uomo, che i padroni abbandonarono al loro destino”.
I popolani, nelle loro modeste abitazioni, difficilmente avevano acqua corrente; gli stessi servizi igienici erano assai rudimentali. Di solito, quando facevano un bagno in casa, colmavano di acqua calda un mastello e vi si adagiavano alla meglio. Altrimenti potevano lavarsi con acqua calda, ma a pagamento, nei bagni pubblici: a Città di Castello ne aveva lo Stabilimento Idroterapico e Balneare di Angioli Bini. Nella buona stagione erano le acque del Tevere o dei suo principali affluenti a offrire nel contempo refrigerio e opportunità di pulizia personale. Una consuetudine così diffusa finì però col suscitare le rimostranze di chi non gradì l’esibizione di tanta nudità in luoghi vicini al centro abitato; il giornale cattolico tifernate chiese “provvedimenti pronti ed efficaci per reprimere lo sconcio e l’indecenza veramente sfacciata e provocante, che tutti i giorni si riscontra sulle rive del Tevere”.