Nel tardo pomeriggio dell’8 luglio 1944 nella casa colonica di Pian dei Brusci, presso il bivio che dalla strada per Morra conduce a Lugnano, giunse una pattuglia mista di tedeschi e fascisti, al comando di un maresciallo tedesco. Fece bruscamente uscire i componenti delle famiglie Sorbi e Ramaccioni dalle stalle e dalle cantine, dove si erano rifugiati per proteggersi dai colpi delle artiglierie, e ordinò la consegna di due inglesi che asserivano di aver visto col binocolo nascondersi nell’edificio. Le ripetute assicurazioni che nessun inglese era passato per di lì e l’infruttuosa perquisizione della casa non placarono la rabbia dei militari. Afferrarono Mario e Ruggero Ramaccioni e li portarono verso il pozzo con l’intenzione di fucilarli. I pianti e le implorazioni dei famigliari, che si inginocchiarono supplicando di risparmiare i loro cari, parvero suscitare un ripensamento nei tedeschi. Decisero dunque di condurre i due Ramaccioni e Marino Margutti, che si trovava lì per caso, alla sede del comando tedesco, posta in collina poco più a nord, a Pompanano. Poi però tornarono e ordinarono a tutti, uomini, donne e bambini, di seguirli.
Rimasero a Pian dei Brusci solo Speranza Giulietti, moglie di Ruggero Ramaccioni, che era la donna più anziana, Alessandro Sorbi, perché mutilato di una gamba, e Stefano Sorbi, al quale fu permesso di assistere la moglie incinta, svenuta per lo spavento. Mentre si incamminavano per Pompanano, le due famiglie nutrivano la speranza di poter dimostrare l’insussistenza dell’accusa di aver nascosto degli inglesi.
Le donne e i bambini, una ventina, si videro rinchiudere in un essiccatoio di tabacco, con un soldato fuori di sentinella. Il gruppo di uomini, al quale era stato aggiunto Pio Pettinari, dodicenne di Canoscio prelevato nelle vicinanze, attese in una stalla di essere sottoposto a interrogatorio. Videro entrare un cappellano, che impartì loro una rapida benedizione in tedesco, e furono inquadrati a due per due – così fu detto loro – per essere condotti dal comandante.
Ma non vi fu alcun interrogatorio. Giunti presso un boschetto di querce, un graduato cominciò a chiedere loro singolarmente, come pura formalità, se fossero italiani. Erano all’incirca le otto di sera. In quel mentre Pio Pettinari si dette alla fuga. I soldati gli spararono contro, ma l’adolescente, benché ferito a una gamba, riuscì a scappare.
Infuriato per l’episodio, il comandante del reparto non perse ulteriore tempo. Ingiunse ai dieci contadini di fare tre passi indietro e ordinò il fuoco. Attilio Sorbi, colpito alle gambe da una raffica di mitra, si accasciò senza essere raggiunto da altre pallottole in punti vitali. Sopra e attorno a lui caddero gli altri. Poi i soldati s’avvicinarono al cumulo di uomini e cominciarono a dare a ciascuno una pistolettata alla testa. Attilio udì distintamente che il comando di dare il colpo di grazia fu espresso in lingua italiana.
L’esplosione di una granata a poca distanza interruppe il tragico rito. I soldati si allontanarono per proteggersi dall’artiglieria nemica. Fu così che Attilio Sorbi si divincolò a fatica dal mucchio di cadaveri dei congiunti, li baciò e, strisciando, andò a nascondersi sotto un mucchio di grano, poi in un fosso.
Ormai era buio. Tornati sul luogo dell’esecuzione, i tedeschi s’accorsero che mancava un corpo e spararono alla rinfusa tutt’intorno nella speranza di centrare il fuggiasco. Ma inutilmente.
Nella notte Attilio, che frenò l’emorragia legando strettamente le cosce con la cinghia dei pantaloni e con stringhe fatte con gli indumenti, si trascinò giù per la collina e poi attraverso la valle del Nestoro. Pregò la Madonna di Canoscio di assisterlo. Verso le 3.30 del mattino raggiunse la casa colonica di Palazzetto, vicino a Lugnano. All’alba ebbe i primi soccorsi. Intanto nella zona infuriava la battaglia tra anglo-indiani e tedeschi.
Verso la mezzanotte le donne e bambini erano stati liberati. Non sapevano nulla di quanto successo ai loro uomini. Mentre le contrapposte artiglierie duellavano, quello che rimaneva delle famiglie Sorbi e Ramaccioni si incamminò al lume di luna per trovare rifugio in luoghi sicuri. Solo dopo qualche giorno, passato ormai il fronte bellico, fu loro comunicata la notizia della morte dei congiunti.
Persero la vita nella strage:
Ramaccioni Enrico, di Domenico, nato a Perugia il 27 luglio 1876, colono, coniugato con Speranza Giulietti.
Ramaccioni Adolfo, di Enrico, nato a Umbertide il 20 giugno 1909, colono, coniugato con Adele Gamacci.
Ramaccioni Domenico, di Enrico, nato a Umbertide il 7 settembre 1922, colono, celibe.
Ramaccioni Mario, di Enrico, nato a Umbertide il 16 giugno 1926, colono, celibe.
Ramaccioni Ruggero, di Enrico, nato a Montone l’8 marzo 1907, colono, coniugato con Filomena Tamburi.
Sorbi Ignazio, di Alessandro, nato a Monte Santa Maria il 31 luglio 1889, colono, coniugato Rosalinda Schiattelli.
Sorbi Ottavio, di Ignazio, nato a Umbertide il 30 agosto 1908, colono, celibe.
Sorbi Settimio, di Ignazio, nato a Umbertide il 25 aprile 1922, colono, celibe.
Margutti Marino, di Angelo, nato a Città di Castello il 22 settembre 1920, colono, celibe.
Le salme furono sepolte, avvolte in semplici lenzuola, in una fossa comune nel cimitero di Lugnano. Nel settembre del 1947 i famigliari, che giacevano in condizioni di estrema indigenza, chiedevano ancora al Comune un aiuto finanziario per dare ai resti delle vittime una degna sepoltura.
L’esistenza dell’unico sopravvissuto, Attilio Sorbi – da tre pallottole alla coscia destra e da una alla sinistra – sarebbe stata segnata, oltre che dalle ferite fisiche, dallo shock e dal dolore. Nella testimonianza data agli inquirenti otto mesi dopo il fatto, dichiarò che erano tre i fascisti ad aver accompagnato i tedeschi a Pian dei Brusci. Indossavano camicia nera e calzoni corti ed erano senza cappello. Dell’identità di uno di essi era certo: si trattava di Giampiero Pierleoni, figlio di un dentista. Di un secondo fascista seppe solo dire che era “un certo Puletti di Città di Castello”; il terzo lo descrisse come un “giovane di circa 22 anni di buona statura, carnagione bruna, piccoli baffetti neri”.
Un’altra versione dei fatti, di cui però non c’è traccia nella documentazione dell’immediato dopoguerra, indica come possibile causa scatenante della strage la resistenza opposta qualche tempo prima da quei contadini a una requisizione di bestiame da parte dei tedeschi.
La Commissione Regionale per il Riconoscimento dei Partigiani dell’Umbria qualificò impropriamente come “partigiani combattenti caduti” le vittime di Pian dei Brusci. Non essendo stati partigiani, la qualifica avrebbe dovuto essere di “caduti per la lotta di Liberazione”. Ciò avvenne molto probabilmente per garantire alle famiglie delle vittime qualche beneficio di carattere normativo e finanziario.
Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.