Il caporale inglese Albert Goodwin era impiegato in posti avanzati di osservazione dell’artiglieria della 10a divisione indiana. Con essa risalì tutta l’Alta Valle del Tevere. Operò a stretto contatto con i soldati delle varie etnie delle colonie britanniche dell’Estremo Oriente, dalle quali la divisione attinse le sue truppe di fanteria. Militari che provenivano dall’immensa regione tra India e Pakistan: i gurkha dal Nepal, i garhwali dallo Uttarakhand, i beluci dal Beluchistan, i maratha dal Maharastra, i punjabi dal Punjab, dove vive una foltissima comunità religiosa sikh. Questi i ricordi di Goodwin:
“Le truppe indiane erano eccellenti soldati di professione. Forse è dura da ammettere per un britannico: ma in molti casi, specie nella fanteria, gli indiani erano migliori dei britannici. Se avevi un reggimento gurkha alla tua destra o sinistra in un attacco, eri felice; sapevi che non saresti stato tagliato fuori. L’unico loro limite – se si vuole trovare – era l’incapacità di pensare a se stessi. E, per raggiungere gli obbiettivi, dovevano essere bene comandati.
Credevano in ciò che facevano: erano volontari sempre pronti a fare i lavori sporchi. Non avevano nulla da guadagnare da quella guerra. Combattevano più loro per la monarchia, che non i britannici. Anche allora, come ora, era un onore entrare a far parte dei reparti gurkha. Era una tradizione di famiglia. Quelli che non venivano accettati, per qualche colpa o malattia, rimanevano sconvolti.
I sikh, i maratha e i punjabi erano tipiche truppe da combattimento. Dei punjabi si diceva che solo una volta furono presi dal panico, nella battaglia di marzo a Montecassino. Quanto ai garhwali, qualcuno li considerava meno affidabili; ma penso che si tratti di un giudizio un po’ ingeneroso. Tra tutti, i gurkha erano i più feroci. Dolci ed educati quando non si trovavano in prima linea, cambiavano completamente quando erano in azione. Non discutevano mai gli ordini ricevuti: li eseguivano al meglio delle loro capacità.
Noi britannici avevamo più paura di morire degli indiani. Loro non ne avevano affatto; amavano la vita militare e consideravano i combattimenti come il più bello dei giochi. Inoltre erano certi di andare in paradiso e affrontavano la battaglia immacolati, così da poterci salire. Prima della battaglia si lavavano i capelli, e li tagliavano in parte, lasciando un lungo ciuffo che ricadeva dalla parte alta del cranio. Pensavano che quel ciuffo sarebbe servito per tirarli su verso il paradiso. Non erano così i britannici, in gran parte uomini di leva che volevano soprattutto tornare a casa appena possibile.
I gurkha sapevano che i tedeschi li disprezzavano razzialmente. Per loro erano dei soldati negri e non li consideravano niente. Ecco perché i gurkha, a meno che non ci fosse bisogno di catturare qualcuno per avere delle informazioni, non si preoccupavano di prendere prigionieri. Del resto i tedeschi si comportavano nella stessa maniera. Qui in Italia non ho mai saputo di prigionieri indiani sopravvissuti ai campi di prigionia tedeschi.
Poco oltre Sansepolcro, verso l’Alpe della Luna, un reparto maratha si imbatté in tre tedeschi con le braccia sollevate in alto a indicare che si arrendevano. Due stavano un po’ più avanti del terzo, che all’improvviso lanciò una bomba a mano e uccise un paio di maratha. I tre furono subito uccisi, ma la notizia di quel fatto infuriò tanto la fanteria, che da allora gli ufficiali britannici non riuscirono più a convincere la truppa a prendere i tedeschi prigionieri.
Non vi erano tanti contatti tra i vari reggimenti indiani e ricordo che esisteva molta rivalità tra gli indiani di differenti etnie. Siccome gurkha, sikh, maratha, beluci e garwhali parlavano lingue molto diverse l’una dall’altra, ogni gruppo tendeva a stare per conto proprio e si accostava più ai britannici che ad altri indiani. Io, con loro, mi facevo capire addirittura con un misto di inglese e di italiano imparato combattendo in Italia. Vi era tra gli indiani anche molta diversità da un punto di vista religioso.
Questi militari non sembravano soffrire di nostalgia. Eppure, in quel 1944, alcuni di loro, come noi, mancavano da casa da 4 anni. In qualche modo cercarono di ricreare l’ambiente di casa. I soldati asiatici avevano portato con sé i loro usi e costumi. Ad esempio, le divisioni indiane avevano al loro seguito i ‘dhobi’, uomini di casta inferiore che svolgevano i compiti più umili, come lavare i panni e mattare e cucinare le capre e le pecore, che dovevano essere portate loro vive: le uccidevano e cucinavano sul posto. Quando combattevano in prima linea, bisognava portare loro il cibo già cucinato. Per ragioni religiose, non mangiavano la nostra carne inscatolata. La carne di capra e di pecora gli veniva portata insieme ai ‘japatis’, pane cucinato su un tripode di ferro sopra una piastra metallica. Facevano con il pane dei rotolini molto fini, tipo gli spaghetti, e li cuocevano con un fuoco forte e veloce. Avevano un sapore meraviglioso.
Si sente dire che gli ufficiali britannici assegnassero alle truppe indiane, proprio perché ‘di colore’, i compiti più rischiosi, preoccupandosi poco della quantità di perdite dei loro reparti. La questione è difficile e controversa. Io ritengo invece che i reparti indiani si trovarono spesso in brutte situazioni proprio perché erano i migliori. Le truppe di ‘elite’ venivano usate più frequentemente in situazioni difficili per le loro grandi capacità. E bisogna dire che gli indiani avevano un forte senso di fatalismo e, di conseguenza, non si lamentavano se si trovavano in brutte situazioni. Tuttavia devo ammettere di aver notato che quando si era prossimi a occupare una città o un paese di una certa importanza, le truppe indiane che avevano fatto tutto il ‘lavoro sporco’ venivano rilevate da un reggimento britannico, che procedeva con l’occupazione…”
Albert Goodwin conosceva bene i suoi commilitoni indiani anche per un’altra ragione. Aveva stretto amicizia con uno di essi, il maratha ventitreenne Yeshwant Ghadge: “Durante i periodi di riposo dietro le linee di combattimento si chiacchierava mescolando un po’ di inglese maccheronico con qualche parola italiana. Mi disse che veniva da Palasgaon, zona di Bombay, che era sposato da poco e che in precedenza era stato in Iran, Iraq, Siria e a El Alamein”.
La storia di Yeshwant Ghadge è quella di un soldato morto eroicamente e insignito dell’alta onorificenza della Victoria Cross. Albert, nelle sue visite in Italia, si è dato da fare per cercare la sua tomba dell’amico, ha rivisitato i luoghi dell’Alta Valle del Tevere nei quali ha combattuto, ma la ricerca non ha dato esito. [Una recente ricerca di archivio ha appurato che il corpo di Ghadge fu recuperato e cremato ad Arezzo il 25 ottobre 1945, insieme ai corpi di altri 10 soldati maratha caduti nella zona / A recent archive research has ascertained that Ghadge’s body was recovered on October 25th 1945 and cremated in Arezzo, with the bodies of ten other Mahratta soldiers killed in action in the same area].
Goodwin racconta altre cose della famiglia di Yeshwant Ghadge: “Sua moglie si chiamava Laxmibai. L’aveva sposata un anno prima di partire per l’Europa. Non avevano ancora avuto figli. Dopo la guerra, alla vedova fu riconosciuta una pensione che le ha garantito una vita dignitosa. Inoltre i reduci del reparto indiano in cui militava il marito si sono resi disponibili ogni qualvolta si trovava in difficoltà. Ogni anno l’amministrazione della cittadina di Yeshwant Ghadge commemorava il suo eroe di guerra, con una pubblica esposizione della Victoria Cross assegnatagli. In quel giorno i concittadini onoravano la vedova con regali in denaro e vestiario”.
Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.