Per rallentare l’avanzata degli Alleati, i tedeschi non esitarono a trasformare gran parte dell’Alta Valle del Tevere in vero e proprio terreno minato. Ordigni anti-uomo e anti-carro, posizionati un po’ ovunque, ma soprattutto lungo strade e sentieri, ai margini dei corsi d’acqua e nei campi dove fanteria e carri armati potevano procedere più facilmente, costrinsero i genieri della 4a e 10a Divisione Indiana a una lenta, snervante e pericolosa attività di sminamento. Così la descrissero i britannici: “Ogni giorno in ogni strada piccoli nuclei di genieri s’incamminavano con i loro cercamine, ripulendo la superficie delle strade e poi le banchine. Di solito stavano appena dietro la fanteria in avanguardia; ma spesso davanti, siccome la fanteria preferiva muoversi sulle colline e tenersi alla larga da obiettivi ovvi come le strade”.
Gli Alleati, dunque, pensarono prevalentemente a bonificare le strade, i ponti e i luoghi di transito, obbedendo a esigenze squisitamente militari. Gran parte delle mine sparse per la campagna restarono al loro posto e provocarono una strage di civili nei mesi successivi alla Liberazione e anche oltre. La popolazione, specialmente rurale, si rese conto che la letale insidia poteva nascondersi ovunque. Eppure c’era da mietere e trebbiare il grano, da recuperare il bestiame, da riavviare ogni altro lavoro sui campi. Le mine furono fatali anche a numerosi bambini che si muovevano ignari intorno alle loro case.
I dati statistici complessivi sono impressionanti. Ammontano a 224 le vittime di mine e residuati bellici nei 15 comuni della valle: 87 in Altotevere umbro, 137 in Valtiberina toscana, dove il fronte bellico ristagnò più a lungo. Morirono 49 persone a Città di Castello, 44 a Pieve Santo Stefano, 34 a Sansepolcro, 31 ad Anghiari, 26 a San Giustino, 11 tra Citerna e Monterchi, 11 tra Badia Tedalda e Sestino, 10 a Umbertide e altrettanti a Caprese Michelangelo.
Sul piano militare, grande merito dei successi alleati fu riconosciuto al coraggio dimostrato dai loro genieri nel rimuovere le mine sotto il costante fuoco nemico. Ciò nonostante le mine e le trappole esplosive disseminate dai tedeschi costituirono un costante pericolo per i soldati anglo-indiani in ogni tipo di terreno. Soprattutto di notte, per quanto procedessero con prudenza, non sempre riuscivano ad evitare i micidiali ordigni, che provocarono numerose perdite. Della tensione provocata dalle mine portano testimonianza le relazioni giornaliere dei reparti alleati. Eccone degli esempi: “una nuova area perlustrata a Castelnuovo, quattro sottufficiali di ritorno dal pattugliamento feriti da una mina”; “la terza squadra in perlustrazione sulla strada da Pieve Santo Stefano a Monte Faggio, ma fermata da molte trappole esplosive e mine”; “il soldato Rooks è saltato su una mina col suo dingo ed è poi morto per le ferite e lo shock”.
Furono vittime di mine pure militari esperti. Un ufficiale britannico, nonostante avesse già disinnescato 46 ordigni del genere, fu accecato e perse una gamba al 47°. Così veniva riferito il grave ferimento di un geniere alla ricerca di punti dove poter guadare il Tevere: “Dopo che aveva rimosso alcune mine anti-uomo dal sentiero che conduceva al fiume, sfortunatamente toccava l’ultima e perdeva un piede”. Tale insidia teneva gli Alleati costantemente sulle spine: “Spesso erano state piazzate così in profondità che diversi veicoli potevano passarci sopra prima che vi fosse una pressione sufficiente a farle esplodere. Ciò rendeva impossibile individuarle”.
Per rallentare ulteriormente l’avanzata del nemico e costringerlo a una minuziosa opera di bonifica, i tedeschi piazzarono mine anche all’interno dei crateri provocati dalla loro opera distruttiva lungo le strade. Oltre a bloccare temporaneamente il procedere dei reparti corazzati e della fanteria alleata, mine e crateri ottenevano lo scopo di tenerli più a lungo esposti al fuoco dell’artiglieria germanica.
Spesse volte i tedeschi costrinsero gli uomini del posto a scavare le buche dove avrebbero piazzato le mine. Di come tedeschi le posizionavano fu testimone il pistrinese Rino Rossi: “Vengono fatte migliaia di piccole buche a distanza di tre metri l’una dall’altra disposte a scacchi per porvi le mine in alcune e nelle altre negative dei rottami di ferro”.
Saltare su una mina: la testimonianza di un sopravvissuto
Questa è la testimonianza di Antonio Bocciolesi, di Città di Castello:
“Quel giorno del 30 luglio andammo in un campo che si trovava dove adesso c’è la chiesa di San Pio X a recuperare un po’ del grano rimasto dopo il passaggio del fronte. […] Verso le sedici stavo tornando verso il centro del campo, quando all’improvviso mi ritrovai in aria a quattro metri di distanza dal fosso. Avevo pestato una mina. Le persone che erano con me sul campo accorsero subito. […] Ero rimasto soltanto con la cintura dei pantaloni, i vestiti stracciati, il corpo nero come quello di uno spazzacamino, il tallone sinistro completamente spappolato in cinque pezzi, la pelle delle cosce a penzoloni. Il dolore era lancinante. I miei soccorritori mi avvolsero nelle loro camicie, mi presero in braccio e di corsa andarono verso un pronto soccorso; era una vera e propria corsa verso la morte, perché io sanguinavo abbondantemente da tutte le parti.
All’asilo ‘Cavour’ era allestito un ospedale da campo degli inglesi. Un medico che parlava bene l’italiano mi venne incontro e per strada mi fece una puntura. Mi immersero in una vasca da bagno e mentre urlavo per il dolore presi per un braccio il dottore e gli dissi: ‘Tagliami la gamba, per favore’. Il medico mi rispose: ‘Ti salverò la gamba e la vita’. Mi fasciarono tutte e due le gambe e mi trasportarono al Seminario perché l’ospedale era chiuso. C’era una monaca, Don Beniamino Schivo, una ragazza ebrea e il dottor Corrado Pierucci. Sentivo sempre tanto dolore e perdevo molto sangue. La situazione era disperata, il prete mi diede la benedizione e mi fece prendere la Comunione; la mamma piangeva, la monaca disse a mia sorella che forse era difficile che passassi la notte. La ragazza ebrea che era vicino alla mia branda, vedendo che soffrivo molto, mi fece una puntura; mi sembrò di rinascere. Alle quattro della notte, passato l’effetto di quella puntura, i dolori tornarono forti come prima, chiamai la ragazza ebrea e lei di nascosto dalla suora mi fece un’altra puntura. Le fui molto riconoscente.
Il 2 agosto mi portarono all’ospedale civile, che nel frattempo era stato riaperto, consentendo allo staff medico-infermieristico di affrontare con migliori risultati la situazione sanitaria. C’erano l’infermiere Rossi, suor Veronica, l’infermiere Marini, detto Bista, il dottor Pierucci; non avendo neanche le garze, mi fasciarono le ferite con delle lenzuola strappate. Tutti i giorni dai dintorni arrivavano feriti, molti senza gambe e dopo circa mezz’ora morivano dall’infezione; nella corsia dove ero io ne vidi morire sette. La guerra, anche se cessata, continuava il suo percorso di morte. […]
Per più di tre anni portai le stampelle, non potevo stendere la gamba sinistra e tanto meno la potevo poggiare a terra, la mina mi aveva lesionato i nervi della coscia. Porto ancora i segni di quell’orribile giornata: le cicatrici nella gamba, il non riuscire a stare in piedi per più di mezz’ora, l’andamento leggermente claudicante…” (da Memorie di guerra. Il passaggio del fronte nell’Alta Valle del Tevere (1944): voci vicine e lontane, a cura di Federica Barni e Antonella Pirati, Sabbioni Editore, Città di Castello 2010, pp. 47-48).
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.