Il tracciato della Ferrovia Appennino Centrale.
Parte della stazione ferroviaria tifernate, con l'officina (sulla destra, 1886),

Le ragioni dello sciopero e i promotori

Il 16 febbraio 1901 il settimanale di ispirazione democratica “Unione popolare”, intorno al quale gravitava l’ancora esiguo nucleo di repubblicani, socialisti e radicali di Città di Castello, lanciò un appello affinché i ferrovieri si organizzassero in sindacato. In una realtà altotiberina prevalentemente agricola, con una mezzadria arretrata e una atavica subalternità dei coloni rispetto ai proprietari terrieri, sembrava che proprio i ferrovieri della linea “Arezzo-Fossato” fossero nelle migliori condizioni per smuovere le acque e avviare il processo di emancipazione dei lavoratori. Ecco cosa scrisse il periodico: “Ferrovieri, organizzatevi! [… ] Voi per molte ragioni siete la classe che nella nostra regione può, per la prima, dare esempio di una forte e compatta organizzazione; e non dovete tardare un istante a fare ciò che l’interesse vostro e delle vostre famiglie vi obbliga”. Incitò dunque ad avviare una tenace lotta contro “la dolorosa tirannia economica” imposta dalla società capitalista sui salari e per conquistare un orario di lavoro “più equo e meno gravoso” di quello allora in vigore, che non era “adattabile nemmeno a bestie da soma”. Il periodico inoltre sollecitò a rivendicare norme contrattuali più avanzate, che tutelassero i lavoratori contro licenziamenti arbitrari e ponessero le basi per forme di assistenza in caso di malattia, invalidità e vecchiaia; altrimenti avrebbero continuato a rischiare il licenziamento “per un capriccio” della proprietà e, una volta vecchi e inabili al lavoro, sarebbero stati gettati “come limoni spremuti in preda alla miseria la più spaventosa”. “Unione popolare” concluse: “Noi vi abbiamo tracciata la via; a voi il percorrerla”.

L’appello non cadde nel vuoto, anche in virtù della fervida e incessante opera di proselitismo condotta dai primi propugnatori dell’organizzazione sindacale dei lavoratori. Si trattava di un gruppo socialmente e ideologicamente eterogeneo, ma amalgamato dalle convinzioni democratiche e dalla condivisione di un impegno politico fondato sull’abnegazione e sull’altruismo.

Promotore e finanziatore di “Unione popolare” era stato nel 1900 il facoltoso proprietario terriero repubblicano di Morra Giuseppe Nicasi; aveva trovato validi collaboratori nella famiglia tifernate dei Gabriotti: il sarto Roberto fu gerente responsabile del periodico; suo figlio Luigi – tipografo allo Stabilimento Lapi – e la nuora Clelia, madre di quattro figli, ne componevano i testi nelle ore serali in un piccolo laboratorio impiantato nella loro abitazione.

Attorno a “Unione popolare” gravitavano i socialisti di Città di Castello i quali, ricostituita la sezione nell’agosto del 1901, si sarebbero dotati di un proprio organo di stampa, “La Rivendicazione”, dall’ottobre dell’anno successivo. All’epoca dello sciopero facevano sicuramente parte della redazione di “Unione popolare” i socialisti Emilio Pierangeli, Vito Vincenti, Napoleone Bevignani e Silvio Corbucci. Altra figura socialista di rilievo fu l’avvocato e notaio di Sansepolcro Luigi Massa, della cui “instancabile” opera di guida e di consulenza i ferrovieri si sarebbero dichiarati “riconoscentissimi”.

Vi è inoltre da sottolineare il ruolo di colui che  i ferrovieri vollero all’unanimità alla presidenza della loro Lega, il macchinista Augusto Consani. Così lo avrebbero ricordato: “[…] dalla barba rossiccia, scelto con voto unanime a presidente, […] era uomo di poche parole, serio, fermo, educato, e assolse magnificamente il suo compito. […] Rimane nella memoria dei lavoratori dell’Alta Valle del Tevere come il simbolo delle migliori virtù della loro classe. Scrupoloso nell’adempimento del suo dovere: contrario ai bagaglioni: fermo in una intransigenza fatta di cose e non di parole: ricercatore assiduo di soddisfazioni spirituali, che chiedeva nelle ore di riposo alla lettura integrale e assidua della Divina Commedia di Dante Alighieri, da lui intesa appieno”.

Furono soprattutto i macchinisti della Ferrovia dell’Appennino Centrale (F.A.C.) a mostrare maggiore consapevolezza del bisogno di una solida organizzazione sindacale. All’inizio del Novecento li consideravano “l’aristocrazia della classe operaia”: “Fra salario, chilometraggio, indennità pernottamento, economia combustibile, avevano le paghe più alte: lavoravano in libertà con una grave responsabilità, perché erano i piloti del treno e dovevano esercitare tutti i loro sensi e tutta la loro intelligenza perché il treno filasse e giungesse al suo destino. […] Anche all’‘Appennino’ i macchinisti furono i primi nel volere la costituzione della Lega Ferrovieri : […] ricordiamo i due Consani, il vecchio Amazzoni, Piccioli, Fornaci, Prolunghi fra gli altri; al loro fianco i due capitreno Nicola Caimmi, marchigiano, e Gigi Maltoni; Piccinini Venanzio, Bocci, Monanni, Ulivucci, e Silvio Corbucci, avventizio negli Uffici di Direzione”.