Gruppo fotografico dei partigiani di Sansepolcro.

Le prime azioni partigiane in Valtiberina toscana

Più a nord, la banda di Seccaroni fondata da Eduino Francini cominciò a effettuare incursioni dal remoto covo sull’Alpe della Luna. La formazione manteneva uno stretto legame con Sansepolcro, dove il comitato clandestino antifascista riusciva a recuperare qualche arma e a convincere altri giovani ad andare alla macchia. Nel contempo tentava di raccordarsi con gli altri oppositori della valle. Fu Ugo Fusco a tenere contatti con Città di Castello e persino con la banda di Morra.

Proprio questa nascosta attività di opposizione mise in allarme le autorità fasciste. Gli stessi Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana rivelarono che il capoluogo della Valtiberina toscana, all’inizio di marzo, era stato teatro di “fatti intesi a turbare l’ordine e la sicurezza pubblica”, culminati con l’arresto di “due noti propagandisti sovversivi” e di 13 ufficiali della Scuola Centrale di fanteria disgregatasi dopo l’8 settembre. Li accusarono di svolgere “opera deleteria nelle file giovanili” e di essere responsabili della scomparsa di una gran quantità di materiale militare della scuola.

Risale all’8 marzo 1944 la prima requisizione di cui si abbia notizia effettuata in Valtiberina toscana. Fu ai danni della fattoria di Brancialino, nel territorio di Pieve Santo Stefano. Il Notiziario nazionale della GNR identificò gli autori in 25 ribelli di “una banda accantonata nel comune di Badia Tedalda”, i quali, dopo aver consumato un pasto, “si impossessarono di tre prosciutti, dieci fiaschi di vino e tre paia di scarpe, allontanandosi al canto di ‘bandiera rossa’”. Si trattava in realtà della banda di Eduino Francini. Nella relazione sulla sua attività, redatta dopo la guerra da Claudio Longo, l’avvio delle requisizioni venne giustificato con il “mancato arrivo di importanti rifornimenti alimentari”.

Proprio i problemi e le contraddizioni conseguenti a una requisizione effettuata dalla banda di Francini furono gravidi di conseguenze. La sera del 14 marzo un folto gruppo di partigiani – una quarantina secondo fonti fasciste – irruppe nella fattoria Geddes, ad Aboca, in comune di Sansepolcro. Dopo essersi fatti servire la cena, se ne andarono portando via cibo, indumenti, biancheria, un cavallo e del denaro. Comandava l’azione il fiorentino Ermete Nannei, conosciuto con il nome di battaglia di “Cinque”. Alcuni compagni accusarono Nannei di aver prodotto “ingiustificate devastazioni” e di aver asportato “circa 30 chili di argenteria”, rivelandosi un “profittatore tendente a sfruttare la banda per i suoi scopi disonesti”. Per ciò lo arrestarono e lo sottoposero a interrogatorio. A questo punto le fonti divergono. Claudio Longo sottolineò che Nannei, pur non riuscendo a dimostrare la sua innocenza, venne liberato appena si seppe che era in corso un rastrellamento; il partigiano Orlando Pucci, invece, sostenne che chi lo interrogò non lo ritenne coinvolto in ruberie. Certo è che, una volta liberato, Nannei creò scompiglio tra i compagni, chiedendo pesantemente conto delle accuse mossegli. A quel punto la formazione entrò in crisi. Tullio Nofri avrebbe poi ammesso che, in seguito ai litigi sorti per quel “malfatto”, il 18 marzo la banda “fu disfatta”. Alcuni partigiani non se la sentirono più di farne parte e abbandonarono il covo di Seccaroni. Anche se il grosso della banda – che era arrivata a contare una sessantina di elementi – rimase nella zona di Montagna, un nucleo decise di collegarsi con la “formazione Melis” che operava nello Spoletino. Tra di essi Eduino Francini e lo stesso Nannei.

Quanto al bottino del saccheggio compiuto da Nannei, nel dopoguerra i partigiani lo avrebbero recuperato, “dopo varie indagini”, sul colle di Montevicchi, restituendolo a Rodolfo Geddes.

 

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.