Il 12 marzo 1848 (prima che a Roma, dove lo stesso evento si verificò il 28 marzo, con l’assenso di Pio IX, in seguito alle sollevazioni popolari) i Gesuiti furono costretti ad abbandonare Città di Castello, per la mediazione delle autorità, dopo richieste e manifestazioni ostili da parte della popolazione. Durante le dimostrazioni si inneggiava a Pio IX, ma nello stesso tempo si volevano espulsi coloro che erano i più fedeli paladini dell’autorità papale, in questo seguendo un ampio movimento di opinione non solo italiano, ma europeo.
Nella petizione, risalente al 1846, rivolta alla Magistratura di Città di Castello, si affermava che i Gesuiti “dietro promessa di illusori vantaggi trascinano alla rovina la città”. Questo atto giuridico, avvalorato da 150 firme di cittadini e padri di famiglia, era stato ispirato da Filottete Corbucci. In questo memoriale non ci si limita ad elencare le mancanze dei religiosi (che hanno istituito un corso di studi troppo dispendioso, non hanno garantito la copertura di tutte le cattedre, hanno privato i lavoratori locali di possibili guadagni chiamando artigiani assoldati fuori dello stato, hanno tolto uffici e attività al clero locale), ma si mettono in rilievo i problemi della situazione pubblica ed economica del tempo. Una gran parte del censo del Comune, si afferma, è ecclesiastico: inoltre, dei 5.549 abitanti del centro urbano, compresi i sobborghi, “poche centinaia sono possidenti; qualche altro centinaio artieri e mercanti; ma 4.000 almeno si possono porre fra poveri e mendicanti”. La presenza di un grande convitto gesuitico, che avrebbe finito con l’inglobare molte abitazioni vicine, viene presentata dunque non come una possibile fonte di sviluppo intellettuale ed economico, ma come una autentica minaccia.
Il memoriale contro i Gesuiti, oltre a sottolineare come l’artigianato fosse apertamente schierato su posizioni liberali, fornisce indirettamente importanti notizie sugli opifici di Città di Castello.I tre fabbricatori di panni che firmarono il documento (Luigi Bellanti, Bernardo Vincenti e Luigi Arcaleni) davano lavoro a 47 addetti; i quattro cappellai (Pietro Loreti, Raffaello Zanchi, Angelo Allegrini e Michele Torreggiani) a 108; i sette calzolai (Benedetto Cesarotti, Florido Boriosi, Stefano Montani, Luigi Lensi, Camillo Carletti, David Garagalli e Gioacchino Savelli) a 36; i due vasai (Luigi Pasqui e Vincenzo Pasqui) a 10; le tre sartorie (Pietro Landini, Angiolo Mariani e Guido Burchi) a 18; il conciatore di pelli (Giosuè Trivelli) a 7. In totale quindi, si trattava di 20 aziende con 226 lavoranti. Oltre ad essi, firmarono la petizione a titolo personale 37 artigiani, tra cui sette calzolai, cinque falegnami, quattro fabbri, quattro sarti, tre archibugieri, due muratori, due orefici, un ottonaio, un arrotino, un sellaio, un canapaio, un ombrellaio, un fornaciaio, un doratore e un verniciatore. Si schierarono contro i Gesuiti anche 43 possidenti e 22 esponenti del variegato mondo del commercio.
In un foglio a stampa, dal titolo La morale dei Gesuiti, l’attacco ai Gesuiti si fa ancora più diretto e sostanziale. Si afferma infatti che questa congregazione, col pretesto della religione, mirava ad attuare ben altri fini, che erano la conquista del potere e dell’oro. Tornata in Italia dopo la prima soppressione, la Compagnia di Gesù aveva cercato di assuefare i popoli al servaggio, “schiamazzando essere volere di Dio obbedire al tiranno”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Antonella Lignani nel volume Alvaro Tacchini – Antonella Lignani,“Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).