Nel 1824 esisteva in città una sola fabbrica di cera. Apparteneva a Giuseppe e Antonio Bondi. Di essa si sa che produceva “mediocre cera lavorata”, smerciava localmente e nell’Alta Valle del Tevere toscana; usava come materia prima cera levantina, cera nazionale e cotone, ma la cera nazionale era poca e scadente (“né s’imbianca né dura”). Lavoravano nella fabbrica, priva di qualsiasi macchina, tre uomini fissi e uno occupato saltuariamente.
La fabbrica si situava sul torrione di porta Santa Maria che dà sui Frontoni, chiamato appunto “torrione della cera”. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento era passata ai fratelli Verecondo e Ubaldo Ortalli. A quell’epoca vi era una diatriba su chi dovesse godere dell’uso del torrione, dato dal Comune in enfiteusi. In un suo rapporto, l’ingegnere municipale Perucci si dichiarò favorevole al trasferimento della fabbrica: “[…] si chiama fabbrica di cera non perché esista in quel locale un opificio di tale esclusiva destinazione; […] anche attualmente l’orto serve più ad uso di coltura, che ad accessorio per stendere la cera”. E inoltre: “Alla fabbrica di cera non è di necessità avere tanto fabbricato, e né tampoco tanto spazio per i spanditori, in specie nelle piccole città di poco lusso in quel genere di smercio, ed inoltre questa è movibile, non viene limitata a causa delle forze motrici e machine, perché con poca spesa si costruisce in qualunque luogo, e spazio, formando vaschette e fornelli per le caldaje”.
Molto probabilmente gli Ortalli rimasero sul torrione ancora qualche anno. Nel 1861 producevano 12.000 libbre di cera lavorata all’anno; occupavano tre operai, che lavoravano 12 ore al giorno di estate e restavano inattivi in inverno. Il salario giornaliero ammontava a 20 baiocchi. La fabbrica garantiva una rendita annuale di 300 scudi.
Da qualche anno, a quella degli Ortalli si era affiancata un’altra azienda produttrice di cera. Era del commerciante e possidente Giuseppe Pasqui, destinato a diventare una delle persone più facoltose della città. Nel 1890 la dirigeva il figlio di Giuseppe, Domenico. Dava lavoro a tre uomini e a tre donne.
Alla fine del secolo non venivano più citate fabbriche di cera.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note