La banda del “Monte”
“La prima riunione di noi renitenti la facemmo in un boschetto, poco oltre Marcignano. Era metà settembre e stava per scadere il termine per la presentazione della nostra classe. Dovevo arruolarmi tra i bersaglieri. Noi si voleva resistere, ma come? S’era in tredici e s’aveva appena qualche fucile da caccia”. Così racconta l’inizio della sua storia partigiana Piero Signorelli, che della banda del “Monte” fu vice-comandante. Capo della formazione divenne il fiorentino Guerriero Baffo, ufficiale di artiglieria disertore rifugiatosi a Monte Santa Maria Tiberina, dove era sfollata la mamma, originaria della zona.
Di quanto fosse centrale la questione dell’armamento fa fede un episodio avvenuto il pomeriggio dell’8 novembre 1943. Alcuni uomini armati di fucili da caccia, dopo aver preso in ostaggio tre carabinieri in servizio di pattuglia in campagna, circondarono la caserma dei carabinieri di Monte Santa Maria Tiberina e costrinsero i due militi all’interno a liberare tre detenuti arrestati per inadempienza all’obbligo della consegna delle armi. Poi rilasciarono gli ostaggi.
Sebbene, quindi, anche i fucili da caccia fossero allora preziosi, per la resistenza armata al nazi-fascismo ci voleva ben altro. Un moschetto Signorelli lo recuperò da un falegname di Città di Castello. Altri cinque li acquistò a Santa Sofia, in Romagna, dove erano stati abbandonati da soldati sbandati; li andò a prelevare a piedi con dei compagni. Solo in seguito avrebbero preso il via vere e proprie azioni di disarmo di militi fascisti.
La banda non ebbe una sede fissa. Si muoveva di continuo per sfuggire a eventuali ricerche, trovando ospitalità presso i contadini. Allora aveva come punti di riferimento Mucignano e altri casolari nella valle dell’Aggia, tra Marcignano e Monte Santa Maria Tiberina. Già durante l’inverno le autorità fasciste cercarono di intercettarla e segnalarono Baffo come pericoloso oppositore. Anche se la sua costituzione formale venne poi datata all’inizio di marzo 1944, era di fatto esistente e attiva da lungo tempo.
La banda di Badia Petroia
Sul colle di Ghironzo, che domina la parte superiore della valle del Nestoro, trovò stabile rifugio un gruppo di giovani che rigettarono l’arruolamento nel servizio obbligatorio di lavoro e nell’esercito della RSI. Il saldo radicamento nella zona e la vicinanza delle famiglie ne agevolarono la clandestinità, risolvendo soprattutto il problema primario dell’approvvigionamento alimentare. Figura di spicco della banda sin dalla sua aggregazione e da tutti considerato il capo fu Aldo Migliorati, muratore di Badia Petroia.
Nel periodo invernale il gruppo si mosse con circospezione, aspettando tempi migliori. La testimonianza di don Gino Tanzi, parroco della vicina Ronti, rivela di quanta connivenza esso beneficiasse: “Ai giovani alla macchia venivano assicurate informazioni, avvisi di pericolo, vettovaglie e quanto necessario, da parte di tutta la popolazione e le famiglie”. Nel contempo la gente del posto raccomandava accoratamente “il non uso delle armi se non in caso di grave necessità e di difesa”.
La banda riuscì a dotarsi di armi da guerra solo a metà febbraio, quando Migliorati e due suoi compagni recuperarono a Castiglion Fiorentino moschetti, munizioni e bombe a mano nascoste in un pozzo. A quell’epoca Migliorati era già noto al CPCA di Arezzo, che lo aveva incaricato di svolgere attività di proselitismo tra i giovani di quel territorio. Avrebbe poi accettato di collegarsi con il “Raggruppamento Patrioti Pio Borri” di Arezzo, ma mantenne la propria autonomia ed ebbe rapporti solo sporadici con le bande limitrofe di Morra e del “Monte”.
La banda di Morra
Nell’organizzazione della banda di Morra recitarono un ruolo decisivo i Nicasi, facoltosa famiglia di proprietari terrieri della valle del Nestoro. Furono loro ad assicurare appoggio logistico e sostegno ai giovani della zona e ad altri renitenti e disertori di Città di Castello che lì si rifugiarono proprio perché amici dei Nicasi. Il primo nucleo a formarsi si stabilì a Ghironzo, all’inizio di ottobre. Erano una quindicina, tra i quali Luigi e Giuseppe Nicasi, Angelo Ferri e Aldo Pacciarini. Con altri tifernati, Pacciarini si era appropriato di alcune armi della locale Scuola di Artiglieria, quando il reparto si disgregò, occultandole prima in città e portandole poi a Morra. Però, a metà novembre, fu proprio l’insufficienza e l’inadeguatezza delle armi e delle munizioni a disposizione a consigliare di sciogliere momentaneamente la banda.
Avevano appena ricevuto la visita di Venanzio Gabriotti, entusiasta nel comunicar loro l’appoggio degli antifascisti di Città di Castello. Era stato prodigo di consigli di carattere strategico e organizzativo e aveva garantito il proprio apporto per tenere i contatti con la rete degli oppositori del regime. E soprattutto questo fu il ruolo di Gabriotti nelle settimane successive. Coloro che, in attesa della scadenza di presentazione dei bandi di arruolamento, tornarono in città e poterono muoversi con tranquillità ebbero in Gabriotti e nel suo ufficio in vescovado il loro punto di riferimento. Ricordava Aldo Pacciarini: “Chi coordinava tutto a Città di Castello era Gabriotti. Tornati in città, infatti, mantenemmo in piedi una rete di cospirazione non determinata solo da patriottismo, ma anche da spirito di avventura. Poi sarebbe diventata effettivamente un’organizzazione di resistenza, però allora non sapevamo neanche noi a cosa tendevamo. Su tante cose ci si confidava con Gabriotti e lui ci dava indicazioni”. Come ad esempio quando Pacciarini incontrò i due antifascisti di Sansepolcro Ugo Fusco e Sandro Marzani: fu Gabriotti a suggerirgli “come poter sviluppare quel rapporto, quali altri collegamenti intraprendere, quali azioni fare”. Il gruppo di Morra avrebbe mantenuto un legame costante con Gabriotti, amico di Elio Nicasi.
All’inizio di febbraio Pacciarini e altri compagni tentarono di insediarsi sulle montagne del Pietralunghese, dove si erano rifugiati altri tifernati. Ma la scelta finì con l’apparire prematura. Trovarono una realtà di disorganizzazione e di dispersione di gruppi di sbandati, per di più in un momento critico, perché era in corso un rastrellamento fascista. Presero dunque la decisione di tornare nella valle del Nestoro.
A Morra Angelo Ferri si era messo in contatto con altri nuclei che stazionavano nella zona di Monte Favalto. Intanto ferveva nella zona l’attività di Aldo Donnini. Il contesto ambientale di quel febbraio fu avverso. Annotò Antonio Curina:
“Causa il freddo e la neve, i nuclei partigiani, anziché alloggiare nelle capanne, vengono sparpagliati nelle case coloniche della zona”.
La banda di Morra si riaggregò quindi all’inizio di marzo e si stabilì a Meone Vecchio, sul crinale tra le valli del Nestoro e dell’Aggia. Il trentatreenne Angelo Ferri, già ufficiale di fanteria, figurò come comandante militare, ma la gestione fu sostanzialmente collegiale, anche per le relazioni di amicizia tra gli esponenti più autorevoli della formazione. Come quelle contigue di Badia Petroia e di Monte Santa Maria Tiberina, con la quale mantenne legami improntati a reciproca stima e a mutua assistenza, la formazione di Morra conservò sempre una propria autonomia di azione, pur collegandosi con il “Raggruppamento Patrioti Pio Borri” e condividendone la strategia operativa.
Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.