Il tesseramento al P.N.F. rivela l’entità della penetrazione del fascismo a livello di massa. Nel 1941 avrebbe raggiunto la quota di 2.114 iscritti, ai quali si affiancavano un migliaio di Donne Fasciste. Tale successo era inevitabile; al di là di ogni forma di convinzione o di conformismo, quella tessera rappresentava una condizione indispensabile per poter esercitare molti lavori ed accedere a benefici pubblici
Potevano manifestare maggiore libertà di pensiero coloro che, a prescindere dalla saldezza delle convinzioni e dalla forza del carattere, erano meno esposti a pressioni o ricatti di carattere occupazionale. Gabriotti, impiegato della curia, rientrava in questa categoria di persone che, in tempi di dittatura, si potevano considerare privilegiate.
Uno dei successi più significativi del fascismo tifernate fu la capacità di attrarre a sé, o quanto meno rendere inoffensive, personalità di spicco della cultura e del mondo professionale. Giulio Pierangeli analizzò con accenti autocritici l’incapacità del popolo italiano di arginare il fascismo: “… la colpa è proprio nell’aver permesso che questa conquista graduale dello Stato avvenisse e non aver opposto se non una timida e pavida resistenza passiva mascherata dalle esteriori apparenze di adesione al così detto Regime.”
Venanzio Gabriotti era uno dei pochissimi cui non si potevano imputare i rilievi mossi da Pierangeli. Aveva combattuto il fascismo con coraggio e con una libertà d’animo straordinaria e più di chiunque altro aveva pagato di persona per la coerenza della lotta. La bizzarria del carattere e qualche episodio controverso non potevano macchiare un’integrità di fondo. Le avevano provate di tutte per metterlo a tacere, togliendogli i gradi, emarginandolo dall’ambiente combattentistico, infangandone la reputazione, ricorrendo persino a brutali forme di intimidazione. Eppure non l’avevano piegato. Si sentiva comunque sempre più isolato. Tanti amici d’un tempo s’erano arresi. Un giorno, mentre si trovava a Perugia con un nipote, scorse un vecchio “popolare”; chiese al ragazzo di pazientare un po’, raggiunse l’amico e lo salutò calorosamente. Di lì a poco fece ritorno con un’aria affranta, sussurrando malinconicamente: “Anche lui è passato dall’altra parte…”
Gabriotti rimpiangeva gli anni della democrazia e non lo nascondeva ai nipoti, che lo sentivano rievocare con entusiasmo un’epoca lontana e screditata dall’indottrinamento fascista: “Tu non puoi immaginare come fossero belli i tempi quando si battagliava tra “popolari”, socialisti e repubblicani; se qualcuno di una certa parte politica diventava sindaco, era normale fargli opposizione, per il semplice fatto che apparteneva ad un altro schieramento politico…”
Dopo la morte della madre, Gabriotti continuò a vivere in via S. Florido con le sorelle Licia, ancora nubile, e Annita. Costei, sposata a un tipografo, era rimasta presto vedova con tre figli. Fu Venanzio in pratica a far loro da padre; non mancò mai nulla a nessuno. Le circostanze familiari lo portarono sovente a prendersi cura anche di altri nipoti. Diventò una specie di pater familias, premuroso e concreto, generoso e sempre allegro. Amava gli sporadici incontri conviviali con i parenti. I nipoti lo adoravano; lui, l’eroe, permetteva loro di giocare con le medaglie di guerra, di scherzare sulla sua cicatrice e sul cranio d’argento. E poi ci scappavano sempre cinque soldi per le caramelle o la liquirizia.
L’estratto è una breve sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).