Per tutto il mese di maggio si susseguì una specie di tira e molla tra il governo repubblicano e l’armata francese presente nello Stato. Poi cominciarono i combattimenti, che sancirono la sconfitta della Repubblica Romana.
A Città di Castello la restaurazione non sarebbe stata opera dei francesi, ma degli austriaci. Fin dal 23 maggio la commissione di difesa della città formula un appello ai cittadini, temendo l’azione degli austriaci già presenti in Toscana. Si fa appello ai cittadini di difendere la Repubblica: “Volete difendere quel Governo che solo può farvi felici? Ebbene: impugnate il moschetto, imbrandite lo stile, un’arma qualunque, e tutti come una massa compatta stringetevi per affrontare l’urto dei nemici. I gioghi insuperabili dell’Appennino, che il nostro paese circonda, sian le Vostre fortezze […]”.
Il 25 giugno per ingiunzione degli austriaci sopraggiunti vengono tolte le insegne repubblicane. Il giorno dopo gli austriaci partono, e il gonfaloniere Amilcare Tommasini Mattiucci prepara la difesa della città, rafforzando le guarnigioni alle porte e raccomandando vigilanza e prudenza, e soprattutto cercando di evitare assembramenti di persone provenienti dalle campagne, memore del fatto che la reazione aveva sempre avuto origine dal contado.
Alla metà di luglio 1849 si consumano a Città di Castello le ultime incertezze. Sono del 16 luglio le disposizioniper lo scioglimento della Guardia civica e del Circolo Popolare. Alla fine del mese una Notificazione del capitano Multrus, che guida le truppe austriache, mette una pietra tombale sopra l’esperienza rivoluzionaria, ordinando la consegna di tutte le armi. Alla data del 30 luglio risale anche una Notificazione fatta affiggere durante quei giorni nelle nostre zone dalle truppe occupanti, in cui il conte Strassoldo, capo della guarnigione di Ancona, ricorda le disposizioni già date il 17 maggio, col divieto di esibire il tricolore e di indossare le divise dei soppressi corpi armati.
Ad agosto si susseguono le notizie e i proclami relativi alla restaurazione del precedente stato di cose. Il 4 agosto i tifernati vengono informati che è stata istituita una commissione municipale, presieduta da Vincenzo Pierleoni, per restaurare l’antico governo.
Il 10 agosto si insedia di nuovo il governatore distrettuale Pietro Testa. Il Circolo Popolare è chiuso, tutti i beni vengono inventariati, ed anzi i mobili devono essere venduti dal Comune per finanziare la permanenza della truppa austriaca, in realtà formata da croati, che alla metà del mese viene rimpiazzata da un altro contingente. Prima di abbandonare la città fa affiggere un minaccioso manifesto: “E se alcuno di cattiva intenzione attentasse alla tranquillità di qualunque individuo, sarà sottoposto con tutto il rigore al Giudizio Militare, e fucilato senza speranza di grazia”.
Il 26 settembre, ricorrenza di Sant’Amanzio, si celebra in cattedrale il Te Deum per solennizzare le vittorie degli austriaci in Ungheria; il vescovo e il Municipio compiono il rito con la massima accuratezza, facendolo accompagnare da musiche adatte. La città continua ad essere presidiata da truppe austriache.
E proprio verso la fine del 1849, il 29 novembre, a Spoleto, dove si era recato per una adunanza di vescovi, muore il vescovo Giovanni Muzi.
Molte speranze, e soprattutto l’illusione di una soluzione condivisa da tutti, erano in quel momento cadute, mentre coloro che avevano dato vita alla Repubblica Romana riprendevano la via dell’esilio, e coloro che si erano impegnati localmente rischiavano il carcere e le condanne.
Il nuovo anno si apriva per i tifernati con una ingiunzione che cancellava tanti momenti di esaltazione e di attesa: “Le leggi in vigore vietano l’indossamento dei tricolori e di ogni altro segno rivoluzionario”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Antonella Lignani nel volume Alvaro Tacchini – Antonella Lignani,“Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).