Scorcio del centro di San Giustino.
Particolare del resoconto del medico sui decessi.
Altro particolare della relazione.
Disposizioni restrittive per i funerali.

La “spagnola” nel territorio di San Giustino

L’evolvere dell’epidemia nel territorio di San Giustino è documentato soprattutto dalla corrispondenza, talora frenetica, tra l’allora pro-sindaco, Domenico Bastianoni, e il prefetto.
A fine settembre vi erano stati due decessi e continuavano a giungere segnalazioni di nuovi casi di “spagnola” (“qui sembra metta piede ora”). Bastianoni dovette insistere perché gli fossero inviati da Perugia dei disinfettanti: miscela di sublimato con cloruro di sodio e acido fenico.
La situazione peggiorò a ottobre, anche perché si ammalò pure l’unico medico condotto, Antonio Ferri. Lo sostituì, solo per qualche giorno, un medico militare inviato dal distaccamento di Sansepolcro. Ma il dramma che stava vivendo la popolazione richiedeva quanto meno un medico residente a tempo pieno.
Il 10 ottobre, nell’apprendere di 30 nuovi casi di influenza a Selci Lama, dove la popolazione rumoreggiava per la mancanza di assistenza sanitaria, Bastianoni telegrafò al prefetto: “Urgente – Impellenti necessità sanitarie reclamano via assoluta senza discussione medico presente – Ferri sempre malato – Distanze considerevoli separano ns frazioni dal centro – Oggi capitano per una visita impiega ore 5 a Parnacciano e spendo L. 5 giorno – Se domani non avrò medico ricorrerò ministero”. Irritato per il ritardo nell’invio di un sanitario, Bastianoni il 17 ottobre comunicò al prefetto di voler declinare da quel giorno ogni responsabilità. La risposta fu perentoria: “[…] non può declinare nessuna responsabilità che le deriva da carica che ricopre. Le consiglio attendere venuta medico che ho già deciso […]”. Bastianoni restò al suo posto, convinto che solo la sua minaccia di dimissioni aveva sbloccato la situazione.
Il medico supplente, Roberto Caracchini, giunse il 20 ottobre. Intanto l’epidemia stava mietendo vittime soprattutto a Selci. Tra le prime fu Emilia Nardi, figlia diciannovenne di quel Francesco la cui officina meccanica sarebbe diventata di lì a poco vanto del paese e dell’intera valle. Nel corso del mese di ottobre morirono in paese almeno altre 10 persone, di ogni età, a dimostrazione che la “spagnola” riusciva a piegare anche fisici giovanili e vigorosi.
Riferendo di Selci al sindaco, il dottor Caracchini sottolineò “le condizioni miserande del paese non solo dal punto di vista dell’igiene, ma anche della più elementare pulizia”. Quanto all’epidemia, pur estendendosi, presentava per lo più casi “decorrenti in forma benigna senza interessamento né de’ bronchi né dei polmoni”. A suo avviso il 90 per cento dei casi erano “talmente benigni da non richiedere l’intervento del medico”, mentre la gente, allarmata, lo esigeva sempre e comunque, anche in forme “intempestive e violente”. A Caracchini forse sfuggiva che all’origine dell’esasperazione popolare era la prolungata mancanza di un medico e l’aver già visto morire 7 compaesani in poco più di due settimane. Comunque pensò bene di chiedere una retribuzione di 2.000 lire mensili, “suscettibile di equa diminuzione” – scrisse – qualora le diminuite esigenze sieno tali da non richiedere come per il momento attuale, quindici o più ore di affannoso lavoro”.
Dal 20 novembre riprese servizio il dottor Alberto Ferri. Dovette constatare che la “spagnola” stava avendo un decorso tutt’altro che benigno. Si hanno dati statistici solo della seconda quindicina di dicembre, quando i decessi furono 19. L’influenza spezzò molte giovani vite: 8 vittime avevano meno di 9 anni di età, altre 8 tra i 20 e i 40 anni.
Ormai giungevano notizie di decessi da tutto il territorio comunale. A fine dicembre l’epidemia infieriva a Cantone, dove la maestra fece chiudere la scuola ma non riuscì a far arrivare il dottore: Ferri era talmente assorbito dalle chiamate di Lama da non trovare il tempo di salire fino alle località montane.
Dell’infuriare dell’epidemia nel territorio di San Giustino portano testimonianza alcune cronache de “La Rivendicazione”. A ottobre, quando venne a mancare il medico, la popolazione maturò l’idea che le autorità municipali l’avessero lasciata in balia degli eventi. “Non basta distribuire acido fenico, calce e altri disinfettanti”, si legge nel periodico socialista, che rivelò particolari drammatici e sconsolanti: “Il comune si è perfino dimenticato di far seppellire i morti. Diverse famiglie hanno dovuto, con il cuore trafitto dal dolore, pensare da loro a trasportare al cimitero i propri cari. La moglie del giardiniere del conte Della Porta, la settimana scorsa fu costretta di portare al cimitero il proprio marito su un piccolo carrettino a mano… perché nessuno volle prestarsi al pietoso incarico”. In effetti una comunicazione comunale alla prefettura confermava la situazione di assoluta emergenza nella gestione delle salme: “Visto che la mortalità va aumentando, che in realtà difetta il legname per provvedere le casse; ritenuto, secondo il consiglio dei medici, che sarebbe opportuno il seppellimento senza cassa, avvolto il cadavere in lenzuolo impregnato di sublimato corrosivo al 5%, pregherei la compiacenza della S. V. Ill.ma volerlo accordare ed imporre”.
A San Giustino non fu attrezzato alcun locale di isolamento. Lo si ritenne inopportuno – spiegò Bastianoni al prefetto – anche per il pregiudizio popolare “che entrando colà non si esce”. Si fece di tutto, invece, per evitare assembramenti di persone che potessero favorire il contagio. In merito ai funerali e al trasporto dei cadaveri, si raccomandò di farli “per via più breve, senza accompagnamento e benedizione solo in casa del defunto”.
La frammentarietà della documentazione non permette un calcolo completo delle vittime a San Giustino. Di certo ve ne furono 40 tra fine settembre e fine dicembre 1918. In quell’anno morirono nel comune 61 persone in più rispetto al 1917.