Scorcio di Lerchi.
I socialisti piangono alcuni loro compagni morti per la "spagnola".
Articolo censurato de "La Rivendicazione" sull'epidemia.
Gente di Morra all'epoca.

La “spagnola” a Città di Castello e nella valle del Nestoro

Poco dopo la metà di settembre i periodici locali iniziarono a trattare diffusamente della “febbre spagnola”, rivelando la crescente preoccupazione dei cittadini più consapevoli del rischio che si stava per correre. Non a caso i socialisti accusarono di “insipienza” l’amministrazione comunale, per non aver provveduto a disinfettare le strade e a ispezionare i vicoli di una frazione, dopo che un focolaio di infezione vi aveva causato alcuni decessi.
All’inizio di ottobre la “spagnola” colpì soprattutto la frazione meridionale di Santa Lucia. A Città di Castello si levarono altre critiche per l’inadeguato impegno dell’amministrazione comunale: “si tira innanzi empiricamente, poco o nulla preoccupati, perché tanto chi può soccombere è la povera gente, i contadini che per le loro condizioni sociali e di abitazione sono i più soggetti a cadere vittime del male. I ricchi possono far le valigie e scapparsene in più respirabil aere”. Si chiedeva di disinfettare più spesso gli orinatoi, di ripulire le strade dallo sterco dei cavalli, di vigilare con energia contro chi violava le disposizioni del regolamento di igiene, tenendo letame nelle stalle e sbarazzandosi dei propri rifiuti organici fuori di casa. L’ignoranza e il malcostume di molti rischiava di moltiplicare i focolai di infezione. Vi fu chi, dopo aver avuto casi mortali di influenza in casa, portò addirittura sulla pubblica strada gli indumenti del defunto, lavandoli “mentre nell’acqua scorrente guazzavano bambini dai piedi ignudi”.
A metà mese la “spagnola” imperversava ancora. “La Rivendicazione” elencò gli amici e congiunti che erano stati vittime dell’“atroce morbo che in ogni dove miete vittime”. “Il Dovere” pubblicò la lettera di un cittadino di Morra che rivelava una situazione ancora critica nella valle del Nestoro: “Famiglie intere sono a letto e alcuni malati sono gravi, purtroppo. Abbiamo avuto già dei decessi. Se vogliamo un medico bisogna andarlo a cercare a Castello, che dista ben venti chilometri e raccomandarsi chi sa a quanti prima di ottenere un soccorso. Le case colpite dalla morte, le chiese, le strade dei paesi nessuno pensa a farle disinfettare”. Il cittadino lamentava che l’intera valle era senza un medico, al punto che a Morra non potevano nemmeno seppellire i defunti per mancanza di certificato di morte, e si chiedeva perché non si affrontasse lì l’epidemia con la stessa energia messa in mostra a Santa Lucia. Solo qualche giorno dopo quel territorio avrebbe beneficiato dell’assistenza di un capitano medico.
Morra confermò allora una particolare vulnerabilità alle manifestazioni epidemiche legate a questioni di igiene. Appena due anni prima era stata investita, insieme a Lerchi, da “una endemia sporadica di febbri tifoidee”, causata dalle “pessime condizioni” dei pozzi di acqua potabile. Aveva provocato la morte di 20 persone sulle 107 colpite.
Solo a fine mese sembrò che l’epidemia si stesse attenuando. Non si placarono affatto le polemiche contro la superficialità di un’amministrazione comunale bollata come “neghittosa e incosciente dei suoi doveri”.
In quel periodo operò a Città di Castello un lazzaretto, con una quindicina di letti. Si situava fuori porta San Giacomo, in locali attigui alla Fornace Sociale Hoffmann, detta “il Fornacione”. Vi lavorarono due infermiere (Veronica Falchi ed Assunta Battistoni), assistite dal dottor Novelli. Nella sua cronistoria di quegli anni, Antonio Ortolani scrisse che i ricoverati erano “specialmente del popolino per causa del frugale sbatimento [deperimento fisico], essendo i generi alimentari saliti a prezzi enormi”.
Benché non si abbiano cifre esatte sulle vittime dell’epidemia nel territorio tifernate, sappiamo che nel 1918 morirono nel comune 1.005 residenti, ben 415 più del 1917. La media dei tre anni precedenti era stata di 632 morti all’anno. Considerando la fascia di età fino a 10 anni, in quell’anno morirono 311 bambini, cifra superiore di 127 unità rispetto a quella del 1917 e di 93 in confronto alla media dei tre anni precedenti. Nel 1919 il numero di decessi complessivi, 629, tornò intorno alla media.