Allo svecchiamento del sistema produttivo, dal 1909 stava contribuendo in modo significativo la Scuola Operaia. Anche i fabbri ne avevano frequentato sin dal principio con convinzione i corsi serali di disegno; e soprattutto avevano avuto cura di sollecitare i loro garzoni ad accettare il sacrificio di alcune ore di scuola, dopo una faticosa giornata di lavoro, per aprirsi nuovi orizzonti professionali.
Le prospettive di rilancio dell’artigianato dopo la Grande Guerra coinvolsero anche il settore meccanico e fabbro ferraio. La Scuola Operaia colse subito il momento. Si legge nella Relazione sull’anno scolastico 1920-1921: “Alla vecchia ‘bottega’ dell’artigianato si viene sostituendo rapidamente la piccola officina, fornita di macchine ed attrezzi moderni, con una maggiore disciplina e con una maggiore regolarità di lavoro di quelle che non si avessero nella ‘bottega’ e con un interessamento al lavoro più vivo e diretto di quello che non si abbia nella grande officina. Questo movimento spontaneo è particolarmente accentuato nelle frazioni rurali dell’Alta Valle del Tevere per quanto concerne l’arte del ferro […]”. La Scuola si propose quindi di adattarsi prontamente alle nuove esigenze produttive, ancora fortemente legate ai bisogni dell’agricoltura, e di preparare una maestranza adeguata al nuovo scenario: “Una serie di piccole officine modernamente attrezzate; un largo mercato di consumo costituito in maggioranza dalle famiglie coloniche desiderose oramai di usare nell’agricoltura i nuovi strumenti agrarii (trinciaforaggi, aratri, erpici, ecc.) e di migliorare l’arredamento della casa sono elementi che tutti concorrono armonicamente allo sviluppo di queste piccole industrie”.
La Scuola Operaia volle proporsi obbiettivi ancor più ambiziosi. Con la Mostra Retrospettiva del Ferro Battuto, nel 1922, promosse l’evento di maggior rilievo nella storia dell’arte fabbro ferraia tifernate. L’esposizione di pregevoli manufatti di secoli e decenni precedenti – in certi casi veri e propri capolavori – funse da stimolo per il recupero di tale tradizione, nel contesto dell’auspicato rilancio complessivo dell’artigianato. Si sperava in una riscoperta del ferro battuto, con i suoi “pezzi unici” nel contempo solidi ed eleganti, specialmente per l’arredamento interno ed esterno delle case. Un fine intellettuale come don Enrico Giovagnoli dette voce al timore che i maestri del ferro rischiassero di scomparire, soppiantati dai meccanici, che definì “riparatori di macchine, non creatori, artefici meravigliosi per precisione ma non più artisti”. Più ampi sbocchi di mercato potevano significare prosperità per le botteghe tifernati. Giulio Pierangeli espresse così le attese: “Alle roste e ai battenti in ghisa, ai lampadari fusi, alle maniglie fabbricate a serie possono e debbono sostituirsi lavori in ferro battuto, ora che il desiderio di un arredamento estetico della casa si diffonde: il problema è quello di creare disegni e motivi ornamentali semplici e adatti alla natura del ferro, di guisa che i prodotti rispondano ad esigenze estetiche e non sieno eccessivamente costosi.” La diffusione di una qualificata produzione in ferro battuto sembrava inoltre adattarsi alle peculiari caratteristiche di un artigianato frazionato e povero: un’officina specializzata richiedeva infatti poche spese d’impianto, quante necessarie per una fucina, un’incudine, un trapano, un piccolo tornio e un limitato corredo di lime, scalpelli e martelli; per materie prime abbisognavano solo ferro e carbone.
La riscoperta di quest’arte si nutriva anche del legittimo orgoglio per la sopravvivenza di una “accolta di artigiani autentici che lavora nelle botteghe e batte il ferro col martello e lo cesella con la sua lima, senza ausilio di macchine e di ossigeno”; fabbri i quali “altra scuola non ebbero che la loro officina”. Gli intellettuali tifernati infatti parteciparono con passione e competenza al dibattito sulle sorti dell’artigianato. Pierangeli seppe esprimere efficacemente la diffusa riluttanza sia verso i metodi di lavorazione non tradizionali, sia nei confronti di quegli eccessi di ornamentalismo che pur tanto piacevano ai fabbri: “Dal ferro, con il martello e con la lima, tutto può ottenersi, purché si tengano sempre presenti le caratteristiche della materia che si impiega. Contrario ad ogni caratteristica del ferro è l’uso della fiamma ossidrica, che lo snatura del tutto. Il desiderio di far presto e il proposito di fare economicamente del virtuosismo, costituiscono un pericoloso incentivo all’uso della fiamma ossidrica, che riduce il ferro ad una mollezza eccessiva e gli toglie ogni fibra. Con l’ossigeno si fa presto, ma si fa male: al ferro snaturato con la fiamma ossidrica è preferibile la ghisa: alla lamiera trattata con le forbici è quasi preferibile la latta. Se deve essere ferro, sia ferro… senza sforzarlo nell’abbondanza dei fogliami decorativi, delle volute, degli attorcimenti. Linee semplici e vigorose: decoramenti sobrii: sintesi.”
Pierangeli individuò proprio nella Scuola Operaia la sede più idonea per far maturare una corretta sensibilità artistica, progettare efficaci motivi ornamentali e preparare fabbri all’altezza del compito. E la “Bufalini” non venne meno al compito, specie in virtù dell’opera di istruttori di laboratorio come Gino Godioli e, più a lungo, Giuseppe Busatti e dell’insegnante di disegno Marco Tullio Bendini. Proprio a partire da quegli anni ’20 una committenza culturalmente più sensibile, per quanto esigua, si affidò con maggiore frequenza al martello e all’incudine del fabbro per pregiati manufatti d’uso domestico o oggetti di particolare significato decorativo. Soprattutto il cimitero tifernate sarebbe diventato lo scenario austero e suggestivo per tanti dei ferri battuti di produzione.