In quelle elezioni del 1909, i socialisti mostrarono una particolare combattività. Ma era chiaro che l’ostacolo maggiore alla riconferma di Franchetti – colui che poteva sottrargli l’elettorato di centro – era l’amico e seguace di un tempo, il marchese Ugo Patrizi. Così i sostenitori di Franchetti lo attaccarono decisamente, accusandolo di non avere un programma chiaro, di assumere, al bisogno, ora posizioni liberali, ora socialisteggianti, ora filoclericali, ora laiche.
Il 7 marzo le urne decretarono un primo ridimensionamento di Franchetti. Ottenne meno voti di Patrizi e pochi di più del socialista Bonavita. Per lo meno, si guadagnò la possibilità di sfidare Patrizi nel ballottaggio. Ma il destino era segnato. I socialisti, che attendevano l’“ora della rivincita” dopo anni di sconfitte elettorali e si ripromettevano – scrissero – “la liberazione [di Città di Castello] dalla oligarchia dei prepotenti e degli affamatori”, erano pronti a far convergere i loro voti su Patrizi.
Il ballottaggio segnò la definitiva uscita di scena di Franchetti, battuto pesantemente da Patrizi. Lo votarono solo poco più del 29% di quanti si recarono alle urne.
Da quel momento, il barone si disinteressò delle vicende politiche tifernati. La sua sconfitta provocò lo sgretolamento dello schieramento liberale-monarchico a Città di Castello, con l’uscita di scena anche dell’esponente che aveva acquisito maggiore potere all’ombra del barone, il sindaco Francesco Bruni. Nel 1910 il blocco radical-socialista conquistò l’amministrazione comunale.
La morte della moglie Alice, nell’ottobre del 1911, dovette prostrare il barone. Gli giunsero però straordinari attestati di solidarietà. Non gli passò certo inosservato quello degli avversari socialisti, che così la ricordarono: “Alice Franchetti fu profondamente sincera nel suo amore del bene e nell’esercizio della sua beneficenza, che non avrebbe voluto solo lenire il dolore dei miseri, ma dare anche i mezzi per una elevazione morale ed intellettuale dei miseri stessi. Fu una mistica, quasi incomprensibile per noi moderni che le virtù francescane non intendiamo, per noi socialisti, che ad altra meta miriamo e per via radicalmente diversa. Sentì come un dovere educare i bambini, soccorrere i suoi contadini malati e gli altrui, dare alle madri povere ed esauste di latte l’aiuto del latte, fornire alle povere donne, consumatisi i polmoni e la vista ai telai posti nei fondi umidi o in cucine nere di fuliggine, un ambiente ampio aerato luminoso, corredato del conforto dei bagni, di un refettorio, di un modesto asilo per i bimbi. Non chiese gratitudine e non volle onori, paga soltanto della sua soddisfazione intima. A questa sua sincerità profonda, noi, che siamo spesso iconoclasti e amaramente scettici, sentiamo doveroso rendere non servile omaggio, anche se la sua opera fu esclusivamente individualista e personale […]”.
Estratto, senza note, del saggio Le vicende politiche di Leopoldo Franchetti a Città di Castello, di Alvaro Tacchini, in Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, a cura di A. Tacchini e P. Pezzino, Petruzzi Editore, 2002.